Mario Del Pero

Le elezioni di mid-term

Le elezioni di mid-term sono un
primo banco di prova per Obama. Un giudizio sulle politiche fin qui perseguite;
ma anche un test della portata della svolta, a molti apparsa radicale, del
2008. Fu allora eletto presidente un giovane senatore afro-americano – Barack
Hussein Obama – di scarsa esperienza, vaghi propositi, grande erudizione e
straordinario carisma. Il primo afro-americano ad accedere alla massima carica
del paese, la sola ad avere come collegio gli Stati Uniti nella loro interezza
e quindi l’unica a rappresentare la nazione. Il primo senatore dopo John
Kennedy (tra il 1960 e il 2008 sono stati eletti solo governatori). E il primo,
sempre dall’elezione di Kennedy, a non provenire dalla Sunbelt, la cintura degli stati del sud che va dalla California
alle due Caroline.

La rottura del 2008 fu epocale. E
indusse molti a parlare prematuramente di riallineamento elettorale: dell’apertura
di un’era di dominio elettorale democratico. Stando ai sondaggi, Obama e i
democratici subiranno invece una sconfitta martedì prossimo. Difficilmente
riusciranno a mantenere il controllo della Camera; preserveranno forse un’esile
maggioranza al Senato; perderanno il controllo di molti stati, dove si
giocheranno nei mesi a venire partite importanti, dall’applicazione di alcune
delle riforme di Obama alla ridefinizione dei distretti elettorali.

Le cause di questa annunciata
sconfitta sono tante, contingenti e strutturali. Nella storia del paese è
usuale che il partito del presidente neo-eletto sia penalizzato nella prima
scadenza elettorale successiva al suo insediamento. Dal 1945 a oggi, l’unico
presidente a sfuggire a questa sorte fu George W. Bush nel 2002 e in
quell’occasione pesò moltissimo l’effetto dell’11 settembre. E non è detto che
queste sconfitte danneggino  il
presidente in carica, pregiudicandone la possibilità di rielezione e il
successo politico, come scoprirono sia Ronald Reagan (i repubblicani persero
ben 26 deputati nel 1982, ma fu trionfalmente rieletto nel 1984) sia Bill
Clinton, capace di rimbalzare dalla pesantissima sconfitta dei democratici del
1994 (quando persero 54 deputati), vincere le presidenziali del 1996 e
concludere i suoi due mandati con tassi di consenso e popolarità elevatissimi.

È quindi sbagliato leggere il
voto di martedì come anticipazione di una tendenza destinata a consolidarsi nel
2012, quando si voterà anche per la Presidenza. I dati odierni – e il probabile
risultato elettorale – sono invece rilevanti perché mostrano come la portata
della svolta del 2008 sia stata sopravvalutata. Alcune tendenze demografiche
(un’America meno bianca e protestante) e culturali (la stessa America che diventa
meno conservatrice sui cosiddetti temi etici) avvantaggiano oggettivamente i
democratici. Sono però bilanciate, queste tendenze, dalla persistente ostilità
di una maggioranza degli americani a politiche sociali espansive, a un ruolo
più attivo e interventista del governo federale e, soprattutto, all’ipotesi di
aumentare il livello dell’imposizione fiscale, anche solo sui redditi più alti
come propone Obama. Si tratta di posizioni anzi rafforzate dalla profonda
sfiducia verso la politica, le istituzioni e chi le rappresenta. Si cita spesso
il calo di consensi di Obama (di cui solo il 46% degli americani approva oggi l’operato),
omettendo di dire che la popolarità del Congresso è ancor più bassa e ormai da
4/5 anni fatica a superare il 20%.

È probabile che dopo martedì si
torni a una condizione di governo diviso. Senso di responsabilità vorrebbe che
le due parti aprissero allora un dialogo bipartisan e giungessero a dei compromessi.
Il senso di responsabilità collide però con le convenienze elettorali, come si
è ben visto nell’inflessibile comportamento dei repubblicani al Senato in
questo ultimo biennio. E il rischio di un paralizzante muro contro muro è oggi davvero
molto alto.

Il Giornale di Brescia, 1 novembre 2010