Mario Del Pero

Una complessa transizione

È una partita complessa quella giocata al G-20 di Seul e che, su questo e altri tavoli, continuerà nelle settimane a venire. Una partita complessa, come è inevitabile in ogni, difficile transizione.  Perché quella attuale è, a tutti gli effetti, una complicatissima transizione: da un’era a chiara, ancorché contraddittoria, egemonia statunitense a nuovi e ignoti equilibri globali. Nei quali rimarrà una qualche gerarchia di potenza, con al vertice gli Stati Uniti. Ma che sarà contraddistinta da regole diverse, da squilibri di forza e influenza meno marcati e, infine, da una riduzione del potere degli Stati Uniti medesimi.

Il vecchio ordine internazionale che gradualmente sta andando in soffitta poggiava su tre pilastri fondamentali: l’incontestato primato del dollaro; il dominio militare per il tramite del quale gli Stati Uniti garantivano la loro protezione a diversi alleati; l’assoluta indispensabilità del vorace mercato americano, capace di assorbire merci di tutto il mondo alimentando l’impetuosa crescita economica di molti paesi esportatori. Il dollaro forte permetteva di consumare ab libitum, acquisire materie prime a basso costo, attrarre capitali indispensabili all’innovazione e allo sviluppo tecnologico, ottenere crediti facili con cui sostenere il proprio debito crescente, pubblico e privato. Pur mugugnando, gli altri soggetti del sistema internazionale accettavano questa condizione: che apriva loro l’immenso mercato statunitense e, nel caso di Europa occidentale e Giappone, permetteva di essere difesi dal gigante militare americano.

Era una struttura, questa, contraddittoria e in ultimo insostenibile. Perché veniva progressivamente a mancare una delle condizioni, l’indispensabilità della protezione militare statunitense, che l’aveva a lungo puntellata e giustificata. E perché gli squilibri di questo assetto si rivelavano insostenibili. Quello attuale è un mondo dove la percentuale dei risparmi sul Prodotto Interno Lordo supera il 50% nel caso della Cina e si avvicina ormai allo zero negli Stati Uniti; dove agli imponenti attivi della bilancia delle partite correnti cinesi corrispondano deficit ancor maggiori di quella americana; dove nel solo 2008 la Cina ha acquisito il 46% del debito statunitense; dove, infine, ancor oggi la Germania esporta negli Usa quasi il doppio di quanto non importi. È un mondo, questo, dove un gigante prostrato come l’America post-2008 non può più consumare, a dispetto dei lamenti cinesi, tedeschi e brasiliani. E dove, anzi, Obama cerca accordi che permettano agli Usa di esportare maggiormente per soddisfare le pressioni politiche interne e iniziare a correggere le mostruose asimmetrie commerciali odierne.

Nella transizione, potenzialmente conflittuale, cui stiamo assistendo è proprio questo il dato fondamentale da cui partire: l'”impero dei consumi” statunitense sembra essere davvero giunto al capolinea. Se si accetta questa premessa, la conseguenza è che tutte le parti sono a chiamate a fare delle concessioni, peraltro non semplici, soprattutto per le democrazie, sempre più conflittuali e polarizzate, dell’Occidente. La Cina deve stimolare i consumi interni, accettare un apprezzamento della propria valuta e ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni; gli Usa devono rinunciare alla leva di potere unilaterale che il dollaro ha sempre offerto loro e allo strumento di costruzione del consenso rappresentato dai consumi di massa; gli europei sono chiamati a puntellare la crescita economica mondiale, rinunciando ad alcune condizioni di tutela e privilegio di cui ancora dispongono; i paesi emergenti – giganti come Brasile e India, oltre alla stessa Cina – ad accogliere richieste di ulteriore apertura e integrazione.

Non sarà affatto semplice, anche perché ogni governo dovrà rispondere delle conseguenze alla propria opinione pubblica interna e, nella quasi totalità dei casi, ai propri elettorati. Soprattutto, non sarà semplice perché il negoziato cui stiamo assistendo verte proprio su questo: su come gestire una transizione post-egemonica, distribuendone oneri e costi, preservando la stabilità e limitando in ultimo i conflitti.

Il Mattino, 12 novembre 2010