Mario Del Pero

Fragilità americane

Era in fondo scontato che all’ultimo minuto si trovasse un accordo, fosse alzato il tetto del debito e si evitasse così il default. Come era scontato che questo accordo fosse pasticciato e contorto, e lasciasse irrisolte molte questioni. Il debito crescerà più o meno automaticamente in due tranche, la prima di 900 miliardi di dollari, la secondo di mille e 200 miliardi di dollari. La prima parte sarà pareggiata da varie riduzioni a forme discrezionali di spesa (dai parchi alla scuola, dagli incentivi alle fonti rinnovabili al controllo dell’inquinamento); la seconda parte verrà compensata con ulteriori tagli di spesa e modifiche del sistema fiscale che dovranno essere decisi da una commissione congressuale bipartisan, composta da sei democratici e sei repubblicani. Qualora – e la cosa non può essere esclusa – questa commissione non raggiungesse un’intesa, alla fine del 2012 scatteranno una serie automatica di tagli a programmi cari ai democratici, come l’assistenza medica agli anziani (Medicare), e ai repubblicani (la difesa).

Obama trova quindi il compromesso che aveva cercato, emerge da questa dura contesa come la figura politica più responsabile ed evita che la questione del debito condizioni la campagna elettorale del 2012. I repubblicani vedono soddisfatte molte delle loro richieste: ogni dollaro di aumento del debito è, almeno sulla carta, pareggiato da un’eguale riduzione di spesa; è accettata la possibilità che si vadano a toccare dei programmi sacri come Medicare; non vi sono per il momento aumenti dell’imposizione fiscale sui redditi più alti. Difficile offrire delle percentuali, ma si tratta chiaramente di un compromesso da cui i repubblicani ottengono molto di più dei democratici. Gli Stati Uniti, infine, evitano un default dalle conseguenze potenzialmente devastanti, per la loro economia così come per quella mondiale.

Eppure questi tre soggetti – Obama, i suoi oppositori politici e la stessa America – escono tutti sconfitti e indeboliti dalla saga a cui abbiamo assistito. Obama rivela una volta ancora uno sconcertante deficit di leadership presidenziale. Secondo tutti i sondaggi, una parte maggioritaria dell’opinione pubblica era contraria a tagli al welfare e favorevole a un aumento delle tasse sui redditi più alti. A dispetto di ciò, il presidente ha permesso che fossero i repubblicani, e i repubblicani più radicali del Tea Party, a dettare tempi e forme della discussione politica e pubblica. Obama ha negoziato un accordo che scavalcava, a destra, quello raggiunto da democratici e repubblicani al Senato, spostando così i termini del compromesso ancor più a vantaggio dei suoi avversari. Da un certo momento in poi – come ha sottolineato il collega dell’università di Chicago Jonathan Obert – il compromesso è parso diventare per Obama un fine in quanto tale e non uno strumento per raggiungere l’obiettivo definito all’inizio.

I contenuti dell’accordo – tagli generalizzati a varie forme di spesa e, per il momento, nessun aumento delle tasse – premiano quindi i repubblicani. Che emergono però come partito tanto rigido nel difendere privilegi e iniquità quanto irresponsabile nel rischiare di mandare gambe all’aria il paese pur di affermare la propria posizione. Un partito ostaggio della sua ala più radicale e ideologica, la cui credibilità – anche in prospettiva 2012 – esce fortemente indebolita.

Gli Stati Uniti, infine. Che nell’occasione hanno mostrato tutta la loro fragilità. La loro incapacità, cioè, di uscire da questa complessa transizione e di fare i conti con alcune macroscopiche contraddizioni: i conti pubblici disastrati, livelli di tassazione risibili, forme di diseguaglianza come non si vedevano dagli anni Venti del Novecento. Un’America che ha altresì rivelato la disfunzionalità di un sistema politico paralizzato e ostaggio dei gruppi più radicali; dove la camera bassa è infine riuscita a imporre la sua linea. Un’America stretta tra la timidezza, e secondo alcuni la pavidità, del presidente e l’irresponsabile demagogia dei suoi avversari. Un’America, insomma, che in questa occasione ha davvero dato una pessima prova di sé. 

Il Messaggero, 2 agosto 2011