Mario Del Pero

Povertà, populismo e demagogia

I recenti dati sulla crescita della povertà negli Stati Uniti offrono una quadro desolante. Più di 46 milioni di americani, il 15% della popolazione, hanno un reddito che li colloca nella fascia della povertà. Si tratta della percentuale più alta dal 1993 a oggi. In termini assoluti è il numero maggiore di “poveri” dai tempi della Grande Depressione. 50 milioni di americani sono inoltre privi di qualsiasi copertura sanitaria. Il reddito medio di un nucleo familiare è sceso sotto i 50mila dollari ed è, oggi, il 7% in meno rispetto a 12 anni fa.

Questa povertà colpisce maggiormente la popolazione in età adulta e lavorativa (18-65 anni), ossia coloro sui quali maggiormente ricade l’onere di reggere il sistema produttivo e previdenziale del paese. Gli over-65, infatti, grazie alle pensioni della Social Security e al costosissimo programma di assistenza sanitaria agli anziani, Medicare, hanno tutele maggiori e pur a fatica riescono a reggere meglio di fronte a burrasche come quelle attuali. Dentro questa popolazione adulta, ad essere maggiormente colpite sono le minoranze afro-americana e ispanica, i cui tassi di povertà sono del 27% e del 25% rispettivamente, laddove per i bianchi è del 10%. Pesa in questo caso un discrimine antico, scalfito solo in piccola parte dalla conquiste dell’ultimo quarantennio. E pesa, ancor più, la precarietà dei lavori che possono essere trovati da giovani con bassi livelli d’istruzione e qualifiche professionali, come sono spesso i recenti immigrati. La conseguenza, però, è sommare iniquità a iniquità: acuire cioè forme di diseguaglianza sociale già macroscopiche.

I dati sulla povertà, come quelli sulla disoccupazione, ci offrono una fotografia che rimane però ancora parziale. Per essere completa questa va integrata con il radicale ampliarsi della forbice della disuguaglianza avvenuto negli ultimi 30/40 anni. Un fenomeno cui hanno contribuito trasformazioni strutturali dell’economia statunitense e di quella globale. Ma che è stato acuito, e non contenuto, da precise scelte politiche, soprattutto in materia fiscale. Il reddito dell’1% più ricco del paese è cresciuto di quasi 3 volte nell’ultimo trentennio, mentre quello dei 9/10 degli americani non è praticamente aumentato. La percentuale del reddito complessivo, inclusi i guadagni da capitale, di questo 1% è passata in meno di 40 anni dal 9 al 20%; la crescita del reddito dello 0.01%, i veri e propri super-ricchi, è ancor più impressionante: era lo 0.9% di quello complessivo nel 1974; oscilla tra il 5 e il 6% oggi.

Dalla metà degli anni Settanta a oggi abbiamo assistito a una serie di processi intrecciati e interdipendenti: tagli consistenti all’imposizione fiscale su redditi e guadagni da capitale; significativa riduzione del peso del settore manifatturiero e delocalizzazione all’estero di una parte del ciclo produttivo; deregulation del settore finanziario e boom della borsa; decrescente mobilità sociale.

Come è stato politicamente e socialmente sostenibile tutto ciò? Perché non vi è stata una mobilitazione contro quella che è a tutti gli effetti una sconcertante regressione sociale, che pare avere riportato indietro le lancette della storia?

Di nuovo, non vi è una singola spiegazione, quanto il convergere di vari elementi. Il primo, e probabilmente più importante, è rappresentato dai consumi. Consumi a debito, e quindi in ultimo insostenibili, che hanno costituito il vero architrave del sistema: lo strumento attraverso cui gli Usa hanno ripensato la propria egemonia mondiale, attratto capitale e preservato la pace sociale interna. La politica a sua volta ha contribuito ad alimentare e rendere tollerabili questi processi. La sinistra e il mondo liberal si sono dedicati sempre più sulla alla necessità di ridefinire ed estendere la sfera dei diritti individuali, ottenendo importanti conquiste – si pensi solo a come è cambiata la condizione degli omosessuali nella società statunitense – ma allontanandosi dalla storica battaglia per l’equità sociale. La destra ha cooptato questo lessico dei diritti dell’individuo, piegandolo a sostegno di una campagna vincente in favore della deregolamentazione, contro lo stato invasivo e predatore, e, ancor più, contro le tasse, presentate come manifestazione ultima di una violazione della libertà. Se un tema è diventato egemone nel discorso pubblico è quello dei tagli alle tasse: una retorica anti-fiscale alla quale è ormai difficilissimo sottrarsi, a destra come a sinistra.

Ora i consumi sono venuti meno, i conti pubblici disastrati offrono margini ridottissimi di manovra e un’America impaurita e arrabbiata osserva sgomenta e confusa. Rivoltandosi contro i suoi rappresentanti politici e offrendo però il fianco alla irresponsabile demagogia di un populismo anti-politico, che sembra dettare oggi contenuti e forme della discussione pubblica.

Il Mattino, 20 settembre 2011