Mario Del Pero

Romney, vittorie e limiti

Mitt Romney vince le primarie in Arizona e, soprattutto, Michigan, rafforzando così il vantaggio in termini di delegati, anche se la soglia dei 1044 necessaria per ottenere la nomination rimane ancora assai lontana (al momento Romney ne ha 167, seguito da Rick Santorum con 48). Evita, Romney, una sconfitta umiliante nel suo stato natio, il Michigan, che avrebbe potuto davvero alterare i termini della competizione. E consolida così la sua posizione di sfidante quasi certo di Obama in novembre. Riesce a farlo grazie alla pochezza dei suoi avversari, incluso un Rick Santorum sopraffatto dalla stanchezza e dalla mancanza di una guida che lo conduca nella campagna elettorale, e sempre più incapace di contenere il suo imbarazzante radicalismo religioso. Un Santorum privo, di fatto, di una vera e propria organizzazione, al punto da non riuscire ad adempiere alle formalità necessarie per candidarsi in uno stato importante come la Virginia, dove martedì prossimo correranno solo Romney e il libertario Ron Paul.

Eppure Romney non convince e risulta indebolito da queste primarie. Fatica a risolvere una partita che dovrebbe essere invece chiusa da tempo, visto l’immenso gap di risorse a suo favore,l’appoggio di gran parte dell’establishment del partito e, appunto, l’estrema debolezza dei suoi avversari.

Come si spiegano queste difficoltà di Romney? Almeno tre risposte possono essere offerte.

La prima ha a che fare con Romney medesimo. Candidato privo di carisma e fascino, quasi robotico nella postura e nella retorica, incapace di occultare il suo opportunismo, visibilmente pronto com’è ad abbracciare qualsiasi posizioni utile per ottenere la nomination. E candidato penalizzato da un passato che lo ha visto, da governatore del Massachusetts, promuovere politiche invise alla destra repubblicana.

La seconda risposta è data proprio dall’ulteriore radicalizzazione di questa destra. Alle primarie partecipano soprattutto elettori schierati e militanti; la discussione risulta inevitabilmente sbilanciata, nel caso repubblicano a destra. L’attuale disillusione e sfiducia verso la politica ha sinora contribuito a un basso tasso di partecipazione elettorale (inferiore a quello del 2008), amplificando ulteriormente l’effetto di radicalizzazione dell’elettorato tipico delle primarie. La conseguenza è stata quella di rendere competitivo un candidato davvero improbabile ed estremo come Santorum e di far apparire troppo moderato Romney, che pure quattro anni fa costituiva l’alternativa conservatrice a John McCain.

Infine, si è finora ritorta contro Romney la sua presunta forza: la sua esperienza di manager di successo e la rivendicata capacità di utilizzarla per gestire questa complessa transizione economica e finanziaria. Con l’economia al centro della discussione e delle preoccupazioni degli elettori, si riteneva che Romney sarebbe stato grandemente avvantaggiato. Così invece non è stato. In quest’America impaurita e, in parte, incattivita il miliardario Romney non riesce a sfondare tra gli elettori dai redditi meno alti. Stando agli exit poll in Michigan gli elettori dal reddito superiore ai 100mila dollari annui hanno votato per il 48% Romney e per il 34% Santorum; quelli con redditi inferiori ai 100mila dollari, per il 41% Santorum e il 36% Romney. Di Romney spesso irrita l’ostentata ricchezza; sconcerta la dichiarazione dei redditi (il 15% pagato su 20 milioni e più di guadagni, con capitali dirottati anche nei paradisi fiscali); suscitano ilarità i tentativi di apparire come un uomo comune, che va alle corse automobilistiche e cucina gli hamburger sulla griglia.

Chi sorride più di tutti è ovviamente Barack Obama, sino ad ora il vero vincitore di queste primarie. Consapevole, però, che Romney rimane un avversario molto pericoloso, che il desiderio repubblicano di riconquistare la Casa Bianca indurrà molti elettori conservatori a mettere da parte dubbi e insoddisfazioni, e che la partita di novembre rimane quanto mai aperta.

Il Mattino, 1 marzo 2012