Mario Del Pero

La Libia e la campagna elettorale

La barbara uccisione dell’ambasciatore Christopher Stevens e di tre altri diplomatici statunitensi catapulta il Medio Oriente e la politica estera in una campagna presidenziale finora centrata primariamente sull’economia e sulle personalità dei candidati. Romney punta immediatamente il dito contro il presidente e la sua presunta debolezza nel fronteggiare i tanti nemici dell’America, l’Islam radicale su tutti. A differenza di quanto spesso si sostiene, la politica estera degli Stati Uniti ha avuto di rado un appoggio interno ampio e bipartisan. Su di essa, sulle sue scelte e priorità, così come sulla declinazione dell’interesse nazionale, l’America si è spesso divisa. Raramente, però, si è assistito a qualcosa di simile: a un tentativo di sfruttare elettoralmente un dramma come quello odierno, senza attendere nemmeno un istante.

I paragoni con Carter, l’ultimo presidente democratico a non essere rieletto, ora si sprecano. Fu Carter, si argomenta, a non capire la portata della sfida sovietica che si concretizzò nell’invasione dell’Afghanistan; e fu Carter a presiedere a una delle più drammatiche umiliazioni subite dagli Stati Uniti nella loro storia: la vicenda dei 52 cittadini americani presi in ostaggio nell’ambasciata di Teheran e liberati solo dopo quattordici mesi.

Si tratta di un parallelo comprensibile, ma fragile. Obama ha promosso in questi quattro anni una politica estera pragmatica, cauta e, talora, finanche cinica, in particolare nella campagna anti-terroristica contro Al Qaeda, che ha finito per irritare e in parte alienare la sinistra democratica. Ha messo da parte la retorica degli anni di Bush e, per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, lasciato che fossero altri, Gran Bretagna e Francia, a guidare un’operazione internazionale come quella promossa appunto in Libia. E ha accolto le pressioni dell’opinione pubblica interna, terminando l’intervento in Iraq e promovendo un graduale disimpegno dall’Afghanistan. A dispetto delle accuse repubblicane, reiterate durante la convention di Tampa, una chiara maggioranza degli americani non ritiene Obama un presidente debole sulle questioni internazionali e dà un giudizio sostanzialmente positivo sulla sua politica estera. Stando ai sondaggi Gallup, il grado di apprezzamento della politica estera di Carter era, 32 anni fa, del 33%; quello di Obama è al 48%. Sulla politica estera, gli elettori preferiscono Obama a Romney di ben quattordici punto, 54 a 40, uno degli scarti maggiori nel confronto Gallup sui diversi temi politici. E un giudizio in una certa misura rafforzato dall’estremismo di Romney e dei repubblicani che, vuoi per distinguersi dal Presidente vuoi per il peso intellettuale che i neoconservatori ancora esercitano, hanno offerto un programma (e una retorica) di politica estera particolarmente radicale, chiedendo maggiore attivismo in Siria e una posizione ancor più ferma a fianco d’Israele contro il programma nucleare iraniano.

È quindi difficile che quanto accaduto ieri a Benghazi possa fare di Obama il nuovo Carter. Questo non vuol dire, però, che l’assassinio di Stevens un peso elettorale non sia destinato ad averlo. Nel ciclo senza tregua dell’informazione e della discussione politica negli Usa, tutte le notizie vengono usate e gettate con rapidità straordinaria. Il loro singolo impatto sulla campagna elettorale risulta quindi più limitato e marginale di un tempo. A maggior ragione di fronte a due elettorati, quelli democratico e repubblicano, che sembrano essere consolidati e difficilmente scalfibili. E però le drammatiche notizie che vengono dalla Libia interrompono una dinamica che, dopo le due convention, sembrava avvantaggiare decisamente Obama. Rovesciano in altre parole un trend e alterano i termini del confronto politico ed elettorale. Rimettono però anche la politica estera al centro della scena. E questo non è necessariamente un vantaggio per Romney e Ryan.

Il Mattino/Il Messaggero, 13 settembre 2012