Mario Del Pero

Obama e la fine della guerra perpetua

“Come tutte le guerre”, anche la guerra globale contro il terrorismo “deve terminare”, ha affermato Barack Obama nel suo più importante discorso di sempre sul tema. “È ciò che la storia consiglia. È ciò che la … democrazia chiede”, perché una “guerra perpetua … è controproducente e trasforma in modo problematico” l’America e la sua democrazia.

In un discorso alto e sofisticato, Obama ha cercato di sostanziare questa sollecitazione con proposte concrete. Ha promesso di limitare e regolamentare il programma, negli ultimi anni intensivo ed esteso, di assassini mirati attraverso gli aerei droni, invitando il Congresso a istituire apposite corti responsabili per la sua supervisione. Per la prima volta dal 2009 è tornato con forza sulla necessità di chiudere il carcere di Guantanamo, nel quale sono ancor oggi detenuti 166 sospetti terroristi: “la storia”, ha sottolineato, “darà un giudizio severo di questo aspetto della nostra lotta contro il terrorismo e di chi non è riuscito a porvi termine. Immaginate un futuro, tra dieci o vent’anni, nel quale gli Stati Uniti tengono ancora in prigionia persone prive di capi di accusa in un lembo di terra che non fa parte del nostro paese”. Ha enfatizzato la necessità di tornare a forme convenzionali di prevenzione e contenimento del terrorismo, centrate sull’azione d’intelligence, sulla diplomazia e sulla collaborazione internazionale. Ha rigettato quell’approccio unilaterale e militarizzato che ha rappresentato la cifra distintiva dell’azione statunitense dopo l’11 settembre 2001.

Perché questo discorso – vien da chiedersi – e, soprattutto, perché proprio in questo momento?

Almeno tre risposte possono essere offerte. La prima è che su questi temi Obama è ormai più vulnerabile a sinistra che a destra. Le modalità della sua azione contro il terrorismo e il radicalismo islamico, contraddistinte da significativi elementi di continuità con quelle degli anni di Bush, gli hanno permesso di maturare un forte capitale di credibilità presso l’opinione pubblica statunitense, come si è visto bene anche nella campagna elettorale dell’autunno scorso quando per la prima volta da molto tempo i democratici apparvero più affidabili dei repubblicani in materia di politica estera e di sicurezza. Obama può quindi permettersi una svolta di questo tipo ovvero ne ha bisogno per soddisfare le pressioni di una base liberal democratica che nei suoi confronti ha più di un motivo d’insoddisfazione. E che denuncia con forza l’ampliamento quasi incontrollato dei poteri presidenziali causato (e poi a lungo giustificato) da un’emergenza sicurezza che ora non vi è più.

Uno stato di cose al quale anche Obama sembra essere sensibile, che ci indica il secondo motivo di questo discorso: la consapevolezza che si sia venuta a cronicizzare, e di fatto a quasi “costituzionalizzare”, uno stato di emergenza che legittima e avalla procedure extra-costituzionali, che conferisce poteri e discrezionalità estremi al Presidente, i quali, secondo Obama e i suoi, potrebbero in futuro finire in mani meno capaci e oculate.

Terzo e ultimo, infine, la contingenza politica e la difficoltà in cui si trova Obama in seguito alla rivelazione della decisione del dipartimento della Giustizia d’intercettare numerosi giornalisti dell’agenzia Associated Press, colpevole di una fuga di notizia che, si afferma, avrebbe danneggiato l’attività d’intelligence e la sicurezza del paese. Una decisione, questa, che rappresenta solo l’ultimo atto di un’amministrazione ossessionata dalla difesa del segreto di stato e pronta a fare un uso estensivo delle leggi sullo spionaggio, incluso il vecchio Espionage Act del 1917. Contro questa politica si sono scagliati tanto gli avversari repubblicani quanto i media, inclusi quelli tradizionalmente amici, a partire dal New York Times. Ai quali Obama si è pertanto rivolto con un discorso atto, tra le altre cose, a ribadire sia la sua sensibilità per i diritti civili e la libertà d’informazione sia il suo impegno a tutelarli e garantirli.

Si realizzeranno queste promesse e questi impegni? Difficile dirlo. Le alte parole di Obama spesso non hanno portato a politiche efficaci e coraggiose. Per debolezza sua; e per l’opposizione, non di rado dogmatica e ostruzionista, dei repubblicani. Che su questi temi possono peraltro affidarsi a un’opinione pubblica in maggioranza contraria a chiudere Guantanamo e, ancor più, a rinunciare all’uso dei droni.

Il Messaggero, 28 maggio 2013