Mario Del Pero

Le deboli ragioni dell’intervento

Secondo tutti i resoconti di cui disponiamo, Obama ha a lungo resistito alle pressioni di chi chiedeva di alzare la soglia dell’impegno statunitense in Siria e di valutare la stessa opzione militare. L’immensa complessità della situazione siriana e una guerra civile nella quale mancano interlocutori solidi e affidabili costituivano forti deterrenti all’azione. Pesava, inoltre, il timore che un abbattimento violento del regime di Assad avrebbe potuto destabilizzare la regione mediorientale e che da esso avrebbero tratto vantaggio le forze del radicalismo islamico. Così come pesavano le lezioni di Iraq e Afghanistan: la consapevolezza, cioè, che gli Usa non sono in grado oggi di sopportare i costi materiali e politici di un intervento militare. Agiva, infine, la convinzione forte ancorché sottaciuta che il Medio Oriente non sia più così importante per la potenza americana, tutta tesa ad aumentare la propria autosufficienza energetica e a ricalibrare verso l’Estremo Oriente le sue priorità geopolitiche.

Nondimeno, sembra ormai ineluttabile quell’azione militare che Obama aveva cercato di scongiurare. Una nuova guerra che s’intraprende con la peggiore delle situazioni possibili: con la comunità internazionale, e la stessa alleanza atlantica, divise; con un Assad rafforzato; con un’opposizione al regime nella quale è cresciuto il peso dei gruppo islamici più radicali. Più di tutto, con obiettivi strategici e modalità operative al meglio vaghi e limitati e al peggio incoerenti e mal definiti.

Perché, dunque, si decide di ricorrere allo strumento militare? Cosa si spera di ottenere e quali scenari si prospettano?

Almeno tre sembrano essere le spiegazioni di quella che è a tutti gli effetti una capitolazione del Presidente statunitense. La prima ha a che fare con gli equilibri interni alla sua amministrazione e allo stesso partito democratico. Dove sembrano avere prevalso le voci dei tanti liberal interventisti, convinti sostenitori di una dottrina della guerra giusta che combina l’asserito imperativo etico dell’azione militare con il presunto vantaggio strategico che ne deriverebbe per gli Stati Uniti. Si tratta di figure come il segretario di Stato, John Kerry, il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, l’ambasciatrice all’Onu, Samantha Power, gli stessi Bill e Hillary Clinton. Veterani e talora teorici dell’interventismo umanitario degli anni Novanta che invocano non a caso il precedente storico del Kosovo 1999, importante per la sua valenza simbolica e ideale più che per la sua tenue analogie con la Siria di oggi. Anche perché in gioco, si asserisce, sarebbe la stessa credibilità degli Stati Uniti. È questa la seconda, ricorrente giustificazione all’intervento: la necessità di tutelare una credibilità che lo stesso Obama avrebbe incautamente messo in gioco, definendo una “linea rossa” – l’utilizzo da parte delle forze di Assad di armi chimiche – che una volta oltrepassata avrebbe provocato una risposta militare. I sostenitori dell’intervento offrono però un’interpretazione più ampia e meno contingente del significato di questa credibilità, legandola alla rappresentazione che essi offrono degli Stati Uniti e al ruolo che vi assegnano nella protezione e difesa di fondamentali diritti umani e politici. Infine, vi è stato – soprattutto da parte del senatore McCain e di altri “falchi” repubblicani – il tentativo di articolare una giustificazione strategica all’intervento. In virtù della quale, si sostiene che la caduta di Assad indebolirebbe l’Iran ed Hezbollah (oltre, ovviamente, alla stessa Russia) e faciliterebbe così il processo di pace israelo-palestinese.

Molte obiezioni possono essere poste. Il rischio di un’escalation del conflitto e di una catastrofe umanitaria è altissimo; dal Vietnam all’Iraq, la storia insegna che la credibilità degli Stati Uniti e della loro potenza è stata spesso danneggiata da iniziative limitate e non risolutive più che dall’inazione; l’intervento parziale di cui si discute oggi difficilmente risulterà decisivo, ma di certo acuirà il risentimento anti-statunitense e rafforzerà gruppi islamici radicali già attivi in Siria. Più di tutto, però, appaiono completamente assenti quelle che dovrebbero essere le precondizioni basilari e brutali di qualsiasi utilizzo della forza e della violenza: la disponibilità a farne uso pieno e completo, accettandone i costi terribili, in funzione di obiettivi chiari, definiti e raggiungibili.

Il Messaggero, 29 agosto 2013