Mario Del Pero

Obama e i generali egiziani

È un fuoco incrociato e politicamente trasversale quello che sta prendendo di mira l’amministrazione Obama per la sua gestione della crisi egiziana. A seconda dei punti di vista, Obama viene accusato di aver mancato di realismo, assecondando in un primo tempo le pressioni di piazza che portarono alla caduta di un fedele alleato come Hosny Mubarak e cercando, dopo le elezioni, un dialogo con i fratelli mussulmani e il governo di Mohamed Morsi. Ovvero viene criticato, il presidente statunitense, per il suo cinismo, che lo ha indotto ad accettare, e finanche approvare, il golpe militare del luglio scorso e a reagire con timidezza alla sanguinosa repressione di questi giorni. Un cinismo che, secondo i critici, farebbe il paio con quello che avrebbe connotato l’atteggiamento degli Usa verso la guerra civile in Siria. Secondo questa lettura, i generali egiziani avrebbero preso nota della passività statunitense rispetto al conflitto siriano e lanciato la loro violenta offensiva anche perché certi che, come in Siria, Washington avrebbe fatto poco o nulla.

Queste critiche hanno qualche fondamento, ma risultano al meglio parziali e al peggio strumentali. A monte vi è infatti una chiara sopravvalutazione di quel che gli Usa possono fare oggi in Egitto, stante l’autonomia di dinamiche regionali che gli Stati Uniti sono in grado solo in parte di condizionare e le tante costrizioni interne che limitano i margini di azione della politica estera di Obama.

Certo, l’amministrazione statunitense ha compiuto errori marchiani nelle ultime settimane. Il segretario di Stato Kerry ha con troppa fretta avallato il golpe del luglio scorso (arrivando a dichiarare che i militari avevano agito “per ripristinare la democrazia”); la decisione di autorizzare l’abortita missione diplomatica in Egitto di due senatori, McCain e Graham, non ha giovato alla credibilità di Obama; di suo, il presidente è parso peccare a più riprese di ingenuità, fidandosi tanto delle promesse di Morsi quanto di quelle dei generali. Nondimeno, la vicenda egiziana evidenzia plasticamente i dilemmi statunitensi e la leva decrescente di cui gli Usa dispongono in Medio Oriente. Anche senza questi errori, è infatti difficile immaginare che gli Usa avrebbero potuto incidere maggiormente sulle vicende egiziane.

L’Egitto rappresenta un alleato fondamentale degli Usa, oltre che il secondo principale beneficiario degli aiuti militari statunitensi dopo Israele. È, dello stato israeliano, vitale interlocutore; i suoi militari costituiscono, per Tel Aviv, il più importante baluardo nella lotto contro il radicalismo islamico, in particolare in un’area sempre più difficile come quella del Sinai. In altre parole, la partnership strategica tra Usa ed Egitto (e, in una certa misura, tra Egitto e Israele) è stata, è – e presumibilmente continuerà a essere – fondamentale.

Obama non poteva più sostenere Mubarak. Di fronte a un processo che appariva per molti aspetti ineluttabile, non poteva mettersi contro processi che, una volta realizzati, avrebbero ridotto ancor più l’influenza statunitense nell’area. Né poteva pregiudizialmente rifiutare il risultato delle urne e ostracizzare apertamente Morsi e i fratelli mussulmani. Con un’azione di basso profilo, l’unica peraltro possibile, l’amministrazione statunitense ha cercato di mediare nel crescente conflitto politico e istituzionale. Trovandosi però priva di interlocutori politici, vista la debolezza delle forze liberali e filo-occidentali, e con delle forze armate sempre più diffidenti e preoccupate. Certo, la leva degli aiuti militari (che ammontano a circa un miliardo e trecento milioni di dollari annui) poteva, e potrebbe, essere usata con coraggio e decisione maggiori. Da più parti si è chiesto a Obama di sospendere tali aiuti fino a quando il processo democratico non sarà ripristinato; una decisione, questa, che avrebbe quantomeno una forte valenza simbolica, ma che il presidente non ha ancora assunto, limitandosi a cancellare alcune esercitazioni militari congiunte. Gli ingenti finanziamenti che alcuni stati del Golfo sono pronti a indirizzare verso l’Egitto possono però tranquillamente bilanciare la perdita di quelli statunitensi.

Ecco perché Obama agisce (e parla) nella consapevolezza che Washington dispone davvero di pochi mezzi per condizionare gli eventi. Ecco perché il presidente statunitense parla, o almeno così sembra, più alla opinione pubblica interna e internazionale che a un Egitto le cui sorti saranno in ultimo determinate da processi e attori sui quali gli Usa possono oggi incidere poco.

Il Messaggero, 18 agosto 2013