Mario Del Pero

Egemonie e consenso

Com’era ampiamente prevedibile, sulla Siria Obama ha ottenuto poco o nulla da questo G-20. Con l’eccezione di Francia, Turchia, Canada e Arabia Saudita, gli alleati degli Usa hanno mantenuto la loro distanza dal possibile intervento militare. Imbaldanzito dalle difficoltà statunitensi, il presidente russo Putin ha addirittura rilanciato, ergendosi a protettore di quelle che ha definito come le nazioni “più deboli e vulnerabili” all’uso “discrezionale della forza da parte di una superpotenza”.

Un sistema internazionale efficiente e stabile, ancorché non necessariamente giusto, necessita di alcune basilari condizioni per preservare l’ordine, quando questo è minacciato da crisi come quella siriana. Innanzitutto, le principali potenze del sistema devono riconoscere la legittimità del suo modus operandi e delle istituzioni che almeno in parte lo governano. In secondo luogo è fondamentale vi sia una gerarchia di potenza chiara, riconosciuta e non sfidabile. A ciò consegue, inevitabilmente, una terza condizione: la presenza di un soggetto egemone, capace d’imporre, il più possibile consensualmente, le proprie posizioni o comunque di agire, se necessario, come “risolutore di crisi di ultima istanza”. Infine, è indispensabile che tanto tale soggetto quanto gli altri principali attori siano capaci di definire con chiarezza i propri obiettivi e i costi necessari per poterli raggiungere, a maggior ragione se si tratta di democrazie costrette a confrontarsi quotidianamente con le proprie opinioni pubbliche.

In questa crisi – è ormai evidente – tali condizioni sono presenti solo in parte o mancano del tutto. Il sistema internazionale corrente soffre di un evidente deficit di legittimità. Un deficit, questo, simboleggiato dalla persistenza di istituzioni e regole che appartengono ad un’altra epoca, su tutte un consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il cui agire è paralizzato dal diritto di veto dei cinque membri permanenti, come si è ben visto con l’atteggiamento tenuto dalla Russia sul dramma siriano. Le istituzioni però non funzionano anche perché equilibri di potenza che sembravano non scalfibili sono messi ora apertamente in discussione. L’era unipolare a dominio statunitense volge al termine e si apre una complessa fase di transizione post-egemonica. Dove gli Stati Uniti difficilmente perderanno il loro primato, ma vedranno la loro azione internazionale soggetta a vincoli e costrizioni nuovi, come già stanno scoprendo oggi. Dentro una transizione di questo tipo, gli incentivi ad agire in modo opportunistico e spregiudicato si moltiplicano. Perché, appunto, il soggetto egemone non riesce a imporre le proprie posizioni e la disciplina con esse. Si badi bene che questo soggetto ancora esiste e sono ovviamente gli Stati Uniti. I profeti del declino americano, infatti, con troppa leggerezza liquidano le tante, strutturali persistenze della preminenza americana: il primato del dollaro, l’immensa superiorità militare, l’impareggiabile capacità di proiettare globalmente la propria potenza, come mostra tangibilmente la rete di basi di cui gli Usa dispongono nel mondo.

E però di questa preminenza, gli Usa e l’amministrazione che oggi li guida riescono a far relativamente poco. Per le resistenze degli altri soggetti; per la complessità, invero la quasi intrattabilità, di crisi come quella siriana; ma soprattutto per la mancanza delle condizioni menzionate poc’anzi: chiarezza di scopi (una precisa definizione dell’interesse in ballo) e disponibilità condivisa del paese a sopportare i costi necessari per raggiungerli (unità di intenti e coesione nazionale). Sulla Siria si fatica a capire quale sia l’interesse degli Stati Uniti e non è un caso che tra i maggiori critici di un possibile intervento vi siano autorevoli studiosi realisti, che proprio nell’interesse nazionale individuano  la bussola primaria se non unica che deve orientare la politica estera del proprio paese. Soprattutto, il paese non sembra disponibile ad appoggiare l’intervento: di cui non vede, appunto la necessità; di cui teme costi ed esiti. Pesano, va da sé, i clamorosi fiaschi dell’amministrazione Bush e le migliaia di soldati statunitensi che ne sono stati vittima. Pesa la disillusione per quella “primavera araba” letta (e generalizzata) con molta approssimazione e superficialità. Pesa, infine, l’agire erratico di Obama e la sua incapacità di articolare una chiara spiegazione dell’intervento: delle sue ragioni e delle sue possibili conseguenze. E senza ampio consenso interno, l’egemone difficilmente può agire, a maggior ragione quando altri, verificatene le difficoltà, si adoperano fattivamente per ostacolarlo e metterlo in difficoltà.

Il Messaggero, 7 settembre 2013