Mario Del Pero

Il governo americano chiude

 

Alla fine un compromesso non è stato trovato. In assenza di una legge di bilancio, il governo degli Stati Uniti ha dovuto sospendere l’erogazione di una serie di servizi e porre in congedo non retribuito quasi un milione di dipendenti federali. Non avveniva dal 1996.

Lo “shutdown”, la serrata dell’attività di governo, mostra il grado estremo di disfunzionalità del sistema politico statunitense. Evidenzia una paralisi esasperata da un processo apparentemente inarrestabile di polarizzazione dei due campi, democratico e repubblicano, provocata, va detto, primariamente dalla radicalizzazione estrema delle posizioni dei secondi, che controllano oggi la camera dei rappresentanti. A scatenare la crisi è stato il tentativo dei repubblicani di vincolare l’approvazione della legge di bilancio alla modifica di alcuni dei pilastri della riforma sanitaria di Obama, destinati a entrare in vigore nei mesi a venire. Una battaglia che dura ormai da anni, quella repubblicana, contro il più grande successo legislativo del Presidente. E che prende di mira una legge complessa, incompleta, farraginosa in molti dei suoi meccanismi di funzionamento, il cui esito ed eventuale successo sono oggi difficili da prevedere. Una legge, però, approvata dai due rami del Congresso, confermata da una sentenza della Corte Suprema e, in ultimo, da un’elezione – quella presidenziale del 2012 – che fu vissuta e presentata dai repubblicani anche come un referendum sulla riforma sanitaria.

Vi è, in altre parole, un che di quasi-eversivo nella disponibilità ad usare tutti i metodi a disposizione per rovesciare un iter legislativo completato da tempo. Di ciò sono consapevoli molti leader repubblicani, che assistono però impotenti a quanto sta avvenendo, anche se il fronte di deputati della destra del Tea party, che ha imposto questa linea, non supera il 30/40% della rappresentanza repubblicana complessiva alla camera.

Come è possibile tutto ciò? Come può una fazione minoritaria di un partito che controlla solo uno dei rami di governo mettere sotto scacco il paese e addirittura destabilizzare l’economia globale con la minaccia di non autorizzare l’aumento del debito pubblico degli Stati Uniti, la cui approvazione congressuale è necessaria entro il 17 di ottobre?

Pesa indubbiamente la progressiva radicalizzazione di un partito dalla caratterizzazione regionale, demografica e razziale sempre più marcata e circoscritta. Un partito dove sono grandemente sovrappresentati il Sud e una parte del midwest, e quindi un elettorato primariamente maschile e bianco. Ma pesano anche i meccanismi elettorali e la pratica, invalsa a livello statale, di ridisegnare i collegi elettorali nei quali sono scelti i deputati per trarne il massimo vantaggio elettorale possibile. Il meccanismo del cosiddetto “gerrymandering” porta cioè a creare collegi spesso geograficamente assai bizzarri, con lo scopo di rendere la controparte il meno competitiva possibile. È una pratica usata anche dai democratici, quando questi controllano assemblee legislative statali, ma della quale i repubblicani hanno fatto un uso senza precedenti negli ultimi anni, in particolare dopo il voto del 2010. Ne consegue che i democratici debbano stravincere per poter ambire a ri-conquistare la camera: nel 2012 essi ottennero quasi due milioni di voti in più dei repubblicani (uno scarto di circa il 2%), che però riuscirono a preservare una chiara maggioranza (234 a 201). Ne consegue, soprattutto, che in tanti collegi blindati la partita si gioca nelle primarie repubblicane più che nelle elezioni generali: in una consultazione, cioè, alla quale partecipano generalmente militanti radicalizzati che spingono i candidati ancor più verso destra.

I sondaggi sembrano evidenziare una crescente consapevolezza dell’opinione pubblica su chi sia il responsabile primario, ancorché non unico, della crisi. Molti intellettuali e commentari conservatori denunciano la scelta suicida e irresponsabile dei repubblicani. Ma in un paese che osserva con sconcerto quanto sta accadendo si diffonde con forza un disincanto più ampio verso la politica e le istituzioni dal quale tutti, inclusa la stessa democrazia americana, hanno da perdere.

Il Giornale di Brescia, 6 ottobre 2013