Mario Del Pero

Ci sono vincitori in questa disputa?

Perché Stati Uniti e Russia hanno deciso di tornare a confrontarsi sull’Ucraina, sì da indurre il segretario di Stato Kerry a fermarsi a Parigi per un vertice non programmato col suo omologo russo, Lavrov? Soprattutto, cosa si può realisticamente attendere da questo ritorno della diplomazia dopo il gelo delle ultime settimane?

Le ragioni che hanno indotto Obama e Putin a riaprire un canale di discussione sono essenzialmente tre.

La prima si lega a dinamiche più ampie, indipedenti dalla vicenda ucraina ma inevitabilmente condizionate da essa: il reciproco bisogno, e per certi aspetti la mutua dipendenza, che uniscono Stati Uniti e Russia oggi. In questo momento, l’aiuto di Mosca è vitale in alcuni dei dossier più importanti per la politica estera statunitense, Iran e Siria su tutti. A dispetto di quel che spesso si crede, l’economia russa è estremamente fragile e dipendente dall’accesso a crediti e mercati internazionali (il Pil russo è cresciuto appena dell’1.3% nel 2013, mentre la possibilità di un ulteriore fuga di capitali dalla Russia rimane estremamente elevata). Trovare una soluzione di mediazione sulla crisi ucraina può permettere di gestire queste interdipendenze ovvero sfruttarne le potenzialità virtuose evitando che esse alimentino al contrario una spirale che amplifichi e globalizzi lo scontro sull’Ucraina.

La seconda ragione è di natura primariamente simbolica e riflette un confronto che si svolge tanto di fronte alle opinioni pubbliche interne dei due paesi quanto a quelle europee e internazionali. È evidente come la linea della fermezza e dell’intransigenza sia stata apprezzata, e finanche invocata, in Russia come negli Stati Uniti (meno, lo si è visto bene, in Europa). Eppure, per essere accettata questa linea  deve essere accompagnata da un’analoga disponibilità al dialogo e al confronto, perché se è vero che nessuno può cedere è altrettanto vero che nessuno può apparire come il responsabile di un’ulteriore escalation della crisi.

Infine entrambe le parti sanno di trovarsi in una sorta di vicolo cieco. Gli Usa hanno messo in gioco, una volta ancora, la loro credibilità di leader del sistema internazionale. Sono consapevoli come non sia contemplabile una soluzione centrata su una completa capitolazione russa, ma hanno bisogno di una qualche concessione che permetta loro di non uscire interamente sconfitti da questa crisi, almeno sul piano dell’immagine e, appunto, della credibilità. Che è poi ciò di cui necessita anche Mosca: una soluzione che non appaia come una sconfitta e che consenta di attenuare quella che a oggi appare come una possibile “perdita” dell’Ucraina, ossia di un paese che dovrebbe naturalmente collocarsi nell’area d’influenza della Russia e che invece sembra legarsi sempre più a Usa e UE. Il dialogo serve quindi per provare a definire un possibile terreno comune sul futuro dell’Ucraina e per limitare quella che entrambe le parti vivono oggi come una sconfitta: l’annessione russa della Crimea per gli Stati Uniti e la più rapida integrazione del resto dell’Ucraina nella rete d’interdipendenze europee e transatlantiche nel caso della Russia.

Proprio questo ultimo punto ci rivela però le limitate possibilità di trovare un accordo che sia di sostanza e non di facciata, come l’inconcludente vertice parigino tra Kerry e Lavrov ha ben mostrato. L’annessione russa della Crimea non è realisticamente reversibile; nessuno può seriamente contemplare l’utilizzo dello strumento militare o un maggior coinvolgimento della Nato; l’azione russa ha spinto l’Ucraina ancor più verso l’Europa e gli Stati Uniti. Quel che al meglio ci si può attendere sono quindi accordi cosmetici – sui diritti delle minoranze russe in Ucraina, su di un futuro indefinito della Crimea, sui rapporti di Kiev con Unione Europea e Alleanza Atlantica  – che rendano accettabile lo status quo odierno e meno indigesta quella che si profila come una sconfitta per la comunità internazionale e per tutti gli attori coinvolti, a partire dalla stessa Russia.

Il Messaggero, 1 aprile 2014