Mario Del Pero

Il soldato Bergdahl

A quanto si racconta oggi, il soldato semplice dell’Idaho Bowe Bergdahl non ne poteva più. Giunto in Afghanistan all’inizio del 2009, ben presto disilluso nei confronti di una guerra che non comprendeva e irritato da commilitoni con i quali non aveva legato , decise di abbandonare la sua unità che si trovava nell’est del paese, al confine col Pakistan. “Il futuro è troppo bello per essere sprecato in bugie e la vita troppo breve per la dannazione degli altri”, avrebbe scritto nell’ultima e-mail inviata ai genitori .

La nuova vita di libertà dell’ingenuo soldato Bergdahl durò solo due giorni. Immediatamente catturato dai talebani, divenne un bottino di guerra preziosissimo e, col tempo, l’ultimo prigioniero di guerra statunitense in Afghanistan.

Ora, dopo cinque anni di prigionia, Berghdal è sulla strada del ritorno a casa. L’amministrazione Obama ha negoziato uno scambio di prigioneri, liberando (con obbligo di soggiorno per un anno in Qatar) cinque leader talebani incarcerati a Guantanamo in cambio di Bergdahl. L’annuncio è stato dato da Obama stesso, in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato i genitori del soldato.

L’attenta coreografia dell’evento spiega molto della decisione di Obama di accettare quest’accordo. Riportare a casa l’ultimo soldato statunitense in mani talebane serve per dare un messaggio inequivoco a un’opinione pubblica che a sua volta non nutre più illusioni verso l’intervento in Afghanistan (nell’ultimo sondaggio Gallup, e per la prima volta in 13 anni, una maggioranza degli americani ritiene quella guerra un errore). Serve cioè per chiudere, con un gesto dall’alta valenza simbolica, la prima guerra americana del XXI secolo e la più lunga nella storia degli Stati Uniti. Nelle intenzioni dell’amministrazione, negoziare lo scambio di prigionieri con i talebani doveva inoltre aiutare a gestire lo scandalo provocato dalle rivelazioni sulla cattiva gestione degli ospedali per i veterani di guerra, sottofinanziati e incapaci di fornire servizi essenziali ai militari – feriti, mutilati e traumatizzati – di ritorno dall’Afghanistan. “Gli Stati Uniti hanno una regola sacra”, ha affermato Obama, “ed è quella di non lasciare mai indietro” i propri soldati.

E però la vicenda di Bergdahl è rapidamente esplosa nelle mani di Obama. La ricerca attivata dopo la sua fuga sembra essere costata la vita a due, e forse più, soldati statunitensi ed avere comportato un ampio impegno di uomini e mezzi. I suoi commilitoni e diversi gruppi di veterani hanno aspramente criticato la decisione di salvare un disertore, liberando leader talebani detenuti in una struttura, Guantanamo, nei confronti della quale l’opinione pubblica statunitense continua a non condividere la posizione critica del resto del mondo. La mancata consultazione del Congresso sullo scambio di prigionieri – un chiaro, ennesimo abuso di autorità presidenziale da parte di Obama – è stata fortemente criticata dai repubblicani e ha irritato diversi deputati e senatori dello stesso partito democratico, tra i quali l’influente presidente della Commissione Intelligence del Senato, Dianne Feinstein. L’America è un paese stanco delle sue guerre; provato da 13 anni d’interventi militari oggi giudicati inutili. Ma è anche un paese dove il patriottismo militare rimane forte e diffuso, con tutti i suoi eccessi e problemi. Un paese dove ogni contea piange i suoi caduti e invita a onorare i suoi uomini e donne impegnati in missioni militari all’estero. E dove il costo politico di salvare i disertori e liberare i terroristi – perchè questa è la rappresentazione della vicenda offerta dai suoi critici – può risultare inaspettatamente alto.

Il Giornale di Brescia, 7 giugno 2014