Mario Del Pero

Vecchie e nuove realtà dei disordini di Ferguson

Da Ferguson, Missouri, ci giungono immagini antiche e per certi aspetti familiari. La storia americana del XX secolo è scandita dai tanti disordini urbani che ne hanno devastato quartieri e città. Disordini spesso originati da violenze perpetrate dalle forze di polizia contro qualche cittadino nero, si pensi solo al terribile pestaggio di Rodney King da cui originò l’ultimo grande riot urbano, quello di Los Angeles nel 1992. E disordini quindi marcati frequentemente da una precisa matrice razziale.

Anche perché le città americane, come la loro cinta suburbana, riflettono plasticamente nella loro composizione  quella divisione di razza che taglia ancor oggi il paese e che nelle grandi aree metropolitane – ove è maggiormente concentrata la popolazione di colore – si manifesta con più nettezza. Le grandi conquiste del movimento per i diritti civili sono infatti riuscite solo in parte a scalfire una segregazione urbana, nella quale i quartieri e ghetti neri risultano quasi invariabilmente più poveri e violenti degli altri pezzi di città.

Vi sono, quindi, elementi antichi e già visti negli scontri di Ferguson. Vi è una frattura razziale che esaspera la situazione e delegittima, a monte, istituzioni locali e forze dell’ordine non rappresentative degli equilibri della cittadina del Missouri. La popolazione di Ferguson è per i 2/3 nera, ma dei 53 membri del locale distretto di polizia solamente tre sono di colore; in virtù della bassa partecipazione elettorale, il sindaco è bianco come bianchi sono 5 dei 6 consiglieri comunali; negli importantissimi, e influenti, consigli scolastici non siede un afro-americano. Tutto ciò riflette, ed esaspera, squilibri sociali particolarmente marcati, acuitisi negli ultimi anni quando Ferguson da sobborgo bianco è diventato sobborgo a maggioranza afroamericana (nel censimento del 1990, il 74% della popolazione di Ferguson era bianco e appena il 25% nero; oggi il 67% è di colore e appena il 29% bianco). Il reddito medio pro-capite a Ferguson è di circa 21mila dollari, contro una media nazionale di 48mila dollari. Il 22% della popolazione del sobborgo di St. Louis vive sotto la soglia della povertà (si pensi che un altro sobborgo della stessa città, a larga maggioranza bianca, come Ladue ha un reddito medio pro capite di 88mila dollari). Questa stretta interdipendenza tra fratture razziali, quasi-segregazione urbana e squilibri sociali lega Ferguson a tante vicende simili del passato. Come la legano la violenza dispiegata dalle forze di polizia locali, la loro collusione con le istituzioni locali e lo sforzo, prima del potere statale e poi di quello federale, d’intervenire, per garantire l’ordine e promuovere le necessarie indagini, ma anche per dare un preciso segnale politico, con l’obiettivo di riportare la calma.

E però Ferguson rivela anche una serie di particolarità che impediscono di farne un paradigma inequivoco e mostrano, altresì, i limiti delle importanti conquiste in materia di diritti civili così come della svolta che si sperava fosse avvenuta con l’elezione del primo presidente afro-americano nel 2008. Innanzitutto, Ferguson non è – per reddito e reati – un ghetto nero. Non lo è in termini assoluti e soprattutto relativi: se confrontato cioè con sobborghi comparabili di altre città e della stessa St. Louis, dove i due indicatori – povertà e violenza – sono spesso ben peggiori. È però un quartiere che è stato investito da rapidi, e radicali, cambiamenti e che ha sofferto – come tante altre aree urbane d’America – di un pesante sottofinanziamento, dovuto alla riduzione delle tasse e alla diminuzione del reddito medio dei suoi residenti, e quindi della base imponibile con cui finanziare servizi indispensabili (a cui si aggiunge la concomitante erosione delle donazioni private, che tanta importanza rivestono negli Usa). Come si finanzia quindi una cittadina quale Ferguson? Per un quarto del suo bilancio con multe (percentuale che sale a un astronomico 50% per alcune aree limitrofe). Una forma di tassazione indiretta e regressiva, questa, che colpisce in modo sproporzionato la popolazione nera: nel 2013 circa il 90% delle multe e degli arresti avvenuti a Ferguson sono stati nei confronti di afro-americani, anche se essi costituiscono appunto solo il 67% dei residenti. E questo ci porta al secondo elemento: l’operato delle forze di polizia. Incapaci, come si è visto, di incorporare ed esprimere al proprio interno i mutati equilibri razziali della città. E soggette nell’ultimo decennio a un inarrestabile processo di militarizzazione, a Ferguson come in gran parte del paese. Quella “polizia di quartiere” capace d’interagire e dialogare con la popolazione è stata progressivamente sostituita da apparati quasi-paramilitari, che da legge ricevono gratuitamente i materiali dismessi delle forze armate e che agiscono quasi come se si trovassero a Baghdad. Esasperando incomprensione, alimentando diffidenza, ricorrendo con troppa facilità alla violenza. Come vediamo ormai da giorni a Ferguson, Missouri.

Vecchie e nuove realtà dei disordini di FergusonDa Ferguson, Missouri, ci giungono

 

 

Il Mattino, 20 agosto 2014