Mario Del Pero

Guerre illimitate e (non) strategie

Nel suo discorso al paese della notte scorsa, Barack Obama ha sottolineato la necessità di alzare la soglia dell’impegno contro lo stato islamico formatosi in Siria e Iraq (l’ISIL), intensificando ed estendendo la campagna di bombardamenti intrapresa da alcune settimane. Un’azione militare, questa, ritenuta indispensabile per affrontare un pericolo ora definito come esistenziale. E nella quale l’azione dal cielo – e quella, complementare e sottaciuta, delle forze speciali sul terreno – deve essere integrata dalla creazione di un’ampia coalizione internazionale e dall’utilizzo di attori locali per i quali si auspica che la presenza di un comune nemico costituisca motivazione sufficiente a mettere da parte divisioni settarie e intestine.

Così stridenti rispetto alla vaghezza strategica e operativa del discorso, i toni duri usati da Obama sembrano rispondere a una doppia esigenza, interna ed internazionale. Per quanto rovesciati dall’intervento americano, i successi dell’ISIL hanno scioccato l’amministrazione statunitense. Flettere i muscoli, come sta provando a fare Obama, serve non solo per mobilitare l’opinione pubblica interna a sostegno di un’operazione dalla durata potenzialmente illimitata, ma anche a esercitare pressioni su quei paesi arabi la cui ambiguità rispetto al radicalismo islamico e all’ISIL è nota e, oggi, non più tollerabile. È però l’aspetto politico interno quello che aiuta a comprendere meglio toni e tempistica di questo ultimo discorso obamiano. L’orrore per i successi e le modalità d’azione dell’ISIL, culminati con le decapitazioni dei due giornalisti James Foley e Steven Sotloff, ha risvegliato demoni mai sopiti negli Usa. Stando a tutti i sondaggi, una maggioranza degli americani chiede oggi di dare una risposta risoluta a questa nuova minaccia fondamentalista. E, soprattutto, giudica negativamente quella cautela di Obama che finora aveva dimostrato invece di apprezzare. La politica estera e di sicurezza si trasforma così in un ulteriore fattore di vulnerabilità di un presidente già debole e impopolare. Il tutto in un anno elettorale come il 2014, quando il partito democratico rischia non solo di essere ancor più in minoranza alla Camera, ma di perdere addirittura il Senato.

Eppure, l’Obama neo-interventista di ieri notte corre dei grossi rischi politici oltre a subire l’inevitabile accusa d’incoerenza e opportunismo. In primo luogo, quelle pressioni dell’opinione pubblica alle quali cerca di dare risposta non sono per nulla uniformi. Laddove, secondo un sondaggio del Washington Post, il 90% degli intervistati dichiara di considerare l’ISIL un pericolo per gli “interessi vitali” degli Usa e il 65 appoggia un’estensione dell’operazione alla Siria, due terzi degli americani rimangono comunque contrari a qualsiasi nuovo invio di soldati statunitensi nella regione. Un intervento protratto e non risolutivo ed eventuali vittime statunitensi potrebbero far rientrare rapidamente l’attuale sostegno all’azione militare e indebolire ancor più il Presidente, soprattutto se ciò si combinasse con l’ennesima dimostrazione dell’inaffidabilità degli interlocutori locali. I tempi lunghi della formazione di un nuovo (e fragile) governo iracheno, la limitata collaborazione tra curdi, sciiti e sunniti moderati e la prospettiva, assai realistica, che a un indebolimento dell’ISIL corrisponderà (e stia già corrispondendo) una rinnovata competizione interna tra le diverse fazioni irachene non lasciano ben sperare. La strategia obamiana, se ve ne è una, poggia su una precondizione fondamentale – la possibilità di affidarsi ad alleati locali efficaci e affidabili – che è sistematicamente mancata in passato e che è difficile si realizzi oggi. Infine, ed è questo forse il paradosso più significativo, nelle scelte e nella retorica di Obama sembra ritornare uno dei limiti e delle contraddizioni più marcati di quella che fu la campagna contro il fondamentalismo islamico del suo predecessore, George Bush. Per quanto depurata dagli eccessi nazionalisti e unilateralisti di Bush, anche la (non) strategia obamiana sembra accettare l’idea di una campagna militare infinita contro un nemico che, per quanto oggi territorialmente definito, rimane elusivo, sfuggente e capace di riprodursi e reinventarsi continuamente. E anche quella di Obama rischia di diventare una guerra illimitata e permanente, come tutte le guerre nelle quali all’identificazione di un nemico non corrisponde, e forse non può corrispondere, quella di obiettivi chiari, precisi e circoscritti.

Il Messaggero, 11 settembre 2014

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