Mario Del Pero

Charleston e la linea del colore

La terribile strage avvenuta nella chiesa di Charleston in South Carolina evidenzia, se mai ve ne fosse bisogno, quanto profonda, radicata e irrisolta rimanga la questione razziale negli Stati Uniti. Le conquiste sono state tante, per un paese che fino a mezzo secolo fa accettava la segregazione negli stati del Sud. Ma la divisione continua a essere profonda, ampia e lacerante; rimarginarla appare oggi quanto mai difficile.

Molteplici sono gli indicatori dell’ampiezza e profondità della frattura razziale: il reddito (che per le famiglie e gli individui di colore rimane di circa un terzo inferiore a quello delle famiglie e degli individui bianchi); il tasso di disoccupazione (che per i neri oggi si attesta attorno al 10.5%, quasi il doppio della media nazionale); i dati sulle carceri (gli afroamericani costituiscono il 12.5% della popolazione statunitense, ma circa il 40% di quella attualmente in prigione); l’atteggiamento delle istituzioni, a partire dagli apparati di sicurezza, nei confronti dei diversi gruppi che compongono il grande mosaico statunitense (molteplici statistiche mostrano come un giovane afro-americano sia molto più soggetto a controlli da parte della polizia di un giovane bianco, anche a parità di condizioni sociali, reddito o di titoli di studio).

Eppure, un pezzo di America bianca e razzista si sente assediata. Capisce forse di stare dalla parte sbagliata della storia, per quanto lentamente e incoerentemente questa proceda, come ben evidenzia la persistenza degli squilibri e delle sperequazioni appena illustrati. Nei suoi deliri su Internet, l’assassino di Charleston, il 21enne Dylan Roof, affermava di dover agire contro una razza, quella nera, intenta a “violentare le nostre donne e impossessarsi del nostro paese”. Non c’è nulla di nuovo in questa retorica, in questo linguaggio e in queste farneticazioni. Sono fobie (e follie) antiche, quelle cui Roof si affida nel suo manifesto. Ma sono fobie e follie che, per quanto minoritarie, ancora riecheggiano in certe parti d’America, come, appunto, la South Carolina e gran parte del vecchio Sud. Dove sventolano le bandiere della Confederazione sconfitta nella guerra civile. Dove sopravvivono monumenti e vie dedicate a simboli del sud bianco, separatista e segregazionista. Dove nell’ultimo quarantennio, alle crescenti difficoltà economiche – con l’eccezione della Florida, gli stati del Sud sono quelli col più basso reddito pro-capite e familiare negli Usa – è spesso corrisposto il tentativo di usare storia e tradizione per rinsaldare una nuova identità razziale fondata sull’idea che sia stata, e sia, la comunità bianca la vittima primaria di discriminazioni, ingiustizie e finanche violenze.

L’elezione di Barack Obama non poteva di certo mutare questo stato di cose. Con troppa fretta si è pensato di poter sovrapporre la biografia, unica e per molti aspetti “post-razziale”, del Presidente a quella di un paese che post-razziale non può essere e non è. Anzi, per quel mondo bianco impoverito, incattivito e razzista, l’arrivo di un nero alla Casa Bianca ha ulteriormente alimentato paure e rabbie. Che non originano da follia isolata, come taluni politici oggi cercano di sostenere. Ma che stanno dentro un milieu sociale e culturale radicato e per certi aspetti rinnovato. Alterare questo di cose richiede oggi un’azione costante, paziente e incisiva, per la quale una parte d’America non sembra però essere davvero pronta.

Il Giornale di Brescia, 22 giugno 2015