Mario Del Pero

La crisi greca e il basso profilo di Obama

Barack Obama si è dichiarato preoccupato per la crisi greca e i suoi possibili effetti in Europa e nel resto del mondo. Il suo segretario del Tesoro, Jacob Lew, ha avuto ripetuti colloqui telefonici con i ministri dell’Economia di alcuni dei più importanti paesi dell’Unione Europea, incluso il nostro Padoan, e ha inviato un suo rappresentante personale a Bruxelles per seguire da vicino i negoziati. I media americani, di solito assai disattenti verso le questioni europee, stanno dedicando uno spazio insolito alla vicenda greca. Sulle colonne del New York Times, economisti liberal come Joseph Stiglitz e Paul Krugman usano lo scontro tra Tsipras e la troika per promuovere la loro campagna contro le politiche di austerity adottate in Europa e invocate da molti conservatori negli Stati Uniti. Sul Wall Street Journal si denuncia invece l’irresponsabilità di Tsipras e si evocano possibili riverberi globali della crisi, non dissimili da quelli del 2007-8.

Eppure, l’amministrazione Obama ha finora scelto una linea di basso profilo rispetto alla Grecia, sollecitando solo le due parti ad accettare un compromesso ed evitare lo scontro frontale. È una linea diversa dal passato, quella del Presidente statunitense, che solo il febbraio scorso aveva parole assai dure per la UE (e, implicitamente, per Angela Markel) quando in riferimento alla Grecia affermava che le riforme andassero fatte “con lo sviluppo e non l’austerity” e criticava chi pensava di potere ulteriormente “spremere un paese in recessione”.

È un basso profilo, quello di Obama, che si può spiegare in almeno tre modi.

Il primo, banale, è che gli Stati Uniti e i suoi investitori sono meno esposti dell’Europa nella crisi greca. Si teme il contagio, certo.  E gli Usa rimangono l’azionista di maggioranza del Fondo Monetario Internazionale. Ma nell’analisi politica, così come nella rappresentazione pubblica dominante, quella in atto è una crisi europea, causata da insipienze, egoismi ed opportunismi europei nella quale spetta all’Europa trovare una soluzione. Pressioni palesi degli Usa potrebbero anzi risultare controproducenti, soprattutto dopo la decisione di Tsipras d’indire un referendum.

La seconda spiegazione è la sostanziale rassegnazione dell’amministrazione Obama verso quello che si ritiene essere l’approccio ideologico e rigido della UE e della Germania. Contro il dogmatismo dell’austerity, Obama e l’allora segretario del Tesoro, Timothy Geithner, ebbero modo di scagliarsi in più occasioni durante il primo mandato presidenziale (2009-13), quando l’uscita dalla recessione era ancora incerta e a Washington si denunciava l’insufficiente contributo europeo alla ripresa globale. Poi, dalle secche di quella crisi gli Stati Uniti sono almeno in parte usciti, come gli ultimi dati rivelano bene, con un Pil che cresce il 2.5/3 % all’anno e la disoccupazione stabilmente sotto il 6%. E ne sono usciti anche grazie a scelte pragmatiche e politiche di sostegno alla domanda che l’Europa ha scelto di non emulare.

Infine, se l’economia ha finito per amplificare la divergenza transatlantica e rendere l’amministrazione Obama meno attenta alle cose europee, la geopolitica ha sortito un effetto opposto. Sull’Ucraina, gli Usa hanno estremo bisogno della Germania e della UE. E anche a questo serve il basso profilo rispetto alla Grecia: a non alienare un partner tornato ad essere alleato fondamentale nella nuova partita geopolitica che si gioca in Europa.

Il Giornale di Brescia, 3 luglio 2015