Mario Del Pero

Le primarie repubblicane

Con il primo dibattito televisivo di questa sera, trasmesso da Fox News e al quale parteciperanno 10 dei ben 17 candidati repubblicani, si apre a tutti gli effetti la lunga stagione delle presidenziali statunitensi del 2016. Le primarie dei due partiti si prospettano assai diverse. In quelle democratiche vi è una chiara e indiscussa favorita – Hillary Clinton – la cui corsa alla nomination potrà essere messa in discussione solo da qualche scandalo o dalla possibilità, prospettata negli ultimi giorni, di una candidatura del vice-Presidente Joe Biden.

Molto diverso è il contesto repubblicano. Anche qui vi è – o, meglio, vi era – un favorito, l’ex governatore della Florida (oltre che fratello e figlio di passati presidenti), Jeb Bush. Ma la possibilità che per la quarta volta negli ultimi cinque cicli presidenziali a occupare la Casa Bianca siano un Bush o un Clinton si scontra oggi con la frammentazione del fronte repubblicano e con il rischio di una esasperazione dello scontro che potrebbe nuocere ai candidati più moderati, tra i quali appunto Jeb Bush.

Il partito repubblicano si poneva l’obiettivo di evitare una replica del 2012, quando l’interminabile competizione delle primarie aveva radicalizzato la contrapposizione, spinto la discussione sempre più a destra e ridotto così le possibilità di conquista della Presidenza. Per questo, il comitato elettorale repubblicano aveva deciso di ridurre drasticamente il numero di dibattiti, portandoli dai 27 del 2012 ai 12 del 2016. L’obiettivo non sembra però essere stato raggiunto. Gli aspiranti alla Presidenza sono aumentati esponenzialmente tanto che ci si è dovuti affidare ai risultati dei sondaggi per selezionare i dieci che parteciperanno al dibattito di Cleveland di questa sera (dal quale sono così rimaste escluse figure importanti, come l’ex governatore del Texas, Rick Perry, e l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, entrambi candidati quattro anni fa). Alla moltiplicazione dei candidati è corrisposta la tanto temuta radicalizzazione del confronto. Nettamente in testa ai sondaggi è oggi l’eccentrico miliardario Donald Trump, che ha promosso una campagna aggressiva e politicamente scorretta, al cui centro sono stati posti il tema dell’immigrazione illegale e la necessità di adottare misure più drastiche contro i clandestini. Il messaggio xenofobo e violento di Trump ha riscosso un successo inatteso tra l’elettorato repubblicano e messo sulla difensiva gli altri candidati. Le chance di Trump sono poche o nulle. La sua capacità di esacerbare i toni della discussione e danneggiare le possibilità repubblicane di riconquistare la Presidenza sono invece evidenti.

Perché non si è riusciti a contenere Trump e a meglio disciplinare questa competizione elettorale? E cosa ci dicono queste primarie dello stato del partito repubblicano e, più in generale, del conservatorismo statunitense?

Diversi fattori spiegano la proliferazione di candidati. Pesano la crescente debolezza della struttura partito e la relativa facilità di rastrellare le risorse finanziarie necessarie a una campagna su scala nazionale. Incide il convincimento che vi siano buone possibilità di successo, stanti l’insoddisfazione di molti verso gli otto anni di amministrazione Obama e il limitato entusiasmo nei confronti di Hillary Clinton, che una percentuale maggioritaria degli americani considera inaffidabile e non onesta. Si spera che la storia offra indicazioni destinate a essere confermate, visto che dal 1948 a oggi solo nel 1988 (elezione di George Bush Sr.) un partito è riuscito a conquistare un terzo mandato presidenziale consecutivo. La moltiplicazione delle candidature e l’assenza di un candidato forte hanno appunto facilitato l’ascesa di Trump. Che non è però una scheggia impazzita, né potrebbe esserlo visto l’ampio consenso di cui oggi gode. Trump è invece l’espressione estrema di un partito che nell’ultimo decennio, e ancor più dopo l’elezione di Obama nel 2008, ha conosciuto un’inesorabile radicalizzazione e che una volta assunto il controllo della Camera (nel 2010) ha mostrato poca o nulla disponibilità al confronto e al compromesso. Un partito nel quale, stando ai sondaggi, il 95% dei votanti alle primarie sarà bianco (è il 77% nel paese), con una chiara sovra-rappresentanza di maschi over-50. Un partito, in altre parole, che nella sua (non) diversità demografica e in alcune delle sue principali parole d’ordine pare assomigliare molto di più all’America di un secolo fa che a quella d’oggi.

Il Messaggero, 6 agosto 2015