Mario Del Pero

Lo Stato dell’Unione

Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, Obama ha sorpreso i molti che si aspettavano un intervento in linea con quelli degli ultimi anni, densi di minuziose proposte legislative destinate per la gran parte ad arenarsi sugli scogli di un Congresso dichiaratamente non collaborativo, o centrato sulla celebrazione di quanto fatto in questi otto anni di governo. Certo, non sono mancati i riferimenti ai buoni risultati dell’economia, a un tasso di disoccupazione ormai attestatosi attorno al 5 per cento, a una riforma sanitaria che sta entrando pienamente a regime e che ha ridotto la percentuale della popolazione adulta priva di assicurazione dall`18 all’11.5 per cento. Ma come ha sottolineato il Presidente, il suo è stato un intervento proiettato primariamente verso “il futuro”. Sermonale nella forma e deliberatamente pedagogico in alcuni passaggi, questo Obama d’inizio 2016 ha ricordato quello della straordinaria stagione elettorale del 2007-8: il candidato di un cambiamento e di una speranza ben presto travolti dalla terrena brutalità della politica e da un contesto, interno e internazionale, complesso e ostile.
Il discorso si è articolato su tre assi fondamentali, strettamente intrecciati tra loro. Il primo riguarda la condizione, relativa e assoluta, degli Stati Uniti nel sistema internazionale corrente. Una condizione di superiorità incontestata, ha sottolineato a più riprese Obama. A cui contribuisce l’economia, come evidenzierebbe lo stridente contrasto tra la ripresa statunitense, le fatiche europee e i significativi scricchiolii dei modelli di quelle potenze emergenti, Cina su tutte, la cui ascesa pareva fino a poco tempo fa irresistibile e destinata ad alterare gli equilibri globali. Ma che origina anche, e soprattutto, dalla indiscussa superiorità militare, ha affermato Obama nel passaggio forse più roboante del suo intervento. Perché proprio questo tradizionale parametro di potenza offrirebbe l’indicatore più evidente e tangibile della forza americana; dell’inconsistenza delle argomentazioni di chi – praticamente tutto il fronte dei candidati repubblicani alla Presidenza, capitanati da Donald Trump – non manca occasione per denunciare il presunto declino degli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti sono il paese più potente del mondo”, ha affermato Obama, “per le nostre forze armate spendiamo più dei successivi otto paesi messi assieme. Non vi è davvero competizione”. Riconoscere questo primato statunitense, esagerandone peraltro spendibilità e rilevanza nel quadro delle relazioni internazionali correnti, è servito a Obama per introdurre il secondo asse del suo discorso: quello relativo alla sicurezza del paese di fronte alla nuova sfida, e al nuovo volto, del terrorismo di matrice islamica. È un’America oggi spaventata e disorientata, quella a cui Obama ha parlato. Un’America che aveva sostenuto la politica di sicurezza di quest’amministrazione, convinta che la miscela di eliminazioni mirate attraverso i droni, mantenimento di un ampio e pervasivo apparato di sorveglianza e disimpegno militare costituisse la risposta più efficace (e meno gravosa e impegnativa) alla sfida del terrorismo. Ed è un’America quindi disillusa e critica, dopo l’ascesa dell’Isis e i recenti attentati di Parigi e San Bernardino. Ricordare la forza e superiorità degli Stati Uniti è servito a Obama per cercare di sedare queste paure: per ricordare la condizione d’invidiabile sicurezza nella quale si trova il paese. “Il pericolo” non viene da “superpotenze incombenti” o “imperi del male”, ha affermato il Presidente con un’esplicita comparazione con la Guerra Fredda. Per questo, sono necessari cautela e realismo, evitando d’invocare nuove crociate o terze e quarte guerre mondiali, come fanno alcuni sui oppositori. E qui Obama è passato all’ultimo asse del suo intervento: il rischio che fobie e insicurezze alimentino e legittimino parole d’ordine demagogiche, violente e discriminatorie. Il pericolo, cioè, che la paura contribuisca a indebolire una democrazia già oggi fragile, come Obama ha sottolineato ricordando l’effetto corruttivo dei finanziamenti indiscriminati alle campagne elettorali, la crescente polarizzazione e il basso attivismo civico. Anche in questo, Obama è parso tornare alle origini del suo impegno pubblico, centrato all’epoca sulla necessità di attivare forme di partecipazione e coinvolgimento nuove, per evitare una politica dei pochi, in mano ai demagoghi e agli opportunisti. È stato un discorso alto, l’ennesimo di un Presidente che, comunque la si pensi, entrerà di diritto nel pantheon dei grandi oratori della storia americana. Resta da capire quanto il paese sia ancora interessato ad ascoltarlo e se la campagna elettorale in atto non segnali in qualche misura anche la definitiva archiviazione dell’era di Barack Obama.

Il Messaggero, 14 gennaio 2016