Mario Del Pero

Il fenomeno Sanders

Ha 74 anni, è poco telegenico, parla con un pesante accento newyorchese, si veste piuttosto male e il suo barbiere, per quanto più che in passato, continua a vederlo di rado. È il membro del Congresso più di sinistra e considera la socialdemocrazia scandinava il modello al quale si dovrebbero ispirare gli Stati Uniti. Parla un linguaggio dei diritti che fino a non molto tempo fa sarebbe stato considerato datato e fatica a entrare in sintonia con quelle minoranze, ispanica e afro-americana, che sono centrali per il voto dei democratici oggi. Propone ricette radicali mai testate negli Usa, come l’introduzione di un sistema sanitario pubblico e universale. Chiede di accettare un aumento dell’imposizione fiscale su quasi tutti i redditi, anche se sarebbero soprattutto quelli più alti a venir colpiti, con l’aliquota maggiore – per i redditi superiori a 10milioni di dollari – che dovrebbe salire al 52% (contro l’attuale 39.6) e con tassazione analoga per i guadagni da capitale. Per tutti questi motivi Bernie Sanders è – o meglio, era – il candidato più improbabile alla Presidenza degli Stati Uniti e come tale è stato a lungo trattato dai media e dagli avversari, democratici e repubblicani. Eppure ha stravinto in New Hampshire, ottenuto gli stessi voti di Hillary Clinton in Iowa e, secondo i sondaggi, ridotto di molto la distanza che lo separava dalla Clinton su scala nazionale così come negli stati dove si spostano ora le primarie. È trascinato dal sostegno e l’entusiasmo dei giovani, quegli elettori under-30 che hanno finora votato in larghissima maggioranza (80/85%) per lui.
Come si spiega il fenomeno Sanders? Da dove viene e cosa ci dice dell’America oggi?
Tre risposte possono essere date, schematicamente riassumibili con le categorie della politica, dell’economia e della cultura. La politica, innanzitutto. Ossia un quadro altamente polarizzato che sembra avere eroso molto di quello spazio, moderato e centrista, dove si posizionava chi voleva conquistare la Presidenza. Le matrici di questa polarizzazione sono plurime e una grande responsabilità è della radicalizzazione di un partito repubblicano che ha optato per la linea della rigidità e della conflittualità pregiudiziale. Che con la sua scelta di non fare mai ostaggi ha infine alimentato quella reazione liberal e progressista che ha portato alla vittoria di Obama nel 2008 e contribuisce al fenomeno Sanders oggi. È una polarizzazione, questa, a cui contribuiscono però anche lo smarrimento e la paura prodotti dalla crisi del 2008: dalla precarietà che ne è conseguita; dal calo del reddito medio; dall’impossibilità di compensare tutto ciò con quel facile accesso al credito che ora non vi è più. Ed ecco che le macroscopiche forme di diseguaglianza maturate negli ultimi 30/40 anni – quando la ricchezza nazionale posseduta dallo 0.1% più ricco è passata dal 7 al 22% del totale – diventano non più tollerabili, socialmente e politicamente. E quello che un tempo era facile bollare come ingenuo radicalismo diventa legittima richiesta di equità. Anche perché Sanders non è un marziano (o un socialista in stile danese) capitato per caso negli Usa. Parla al contrario una lingua che ha radici profonde nella cultura politica del paese. Una lingua che rimanda a grandi battaglie sociali e politiche del passato; che fa propria l’idea, sempre presente, che il paese e la sua parte migliore siano stati traditi da elite voraci e irresponsabili; che utilizza con grande efficacia i codici di una tradizione populista e anti-establishment. Una lingua con cui una parte del paese riesce a entrare immediatamente in sintonia. E che nel clima odierno appare paradossalmente più attuale di quella competente, precisa, ma spesso algida e lontana di Hillary Clinton.

Il Giornale di Brescia, 17 Febbraio 2016