Mario Del Pero

Due Populismi?

Le primarie democratiche e, ancor più, repubblicane hanno smentito tutte le previsioni e rovesciato le regole consolidate di questo tipo di competizioni elettorali. A destra come a sinistra, la mobilitazione contro l’establishment – contro quella che noi chiameremo la “casta” – ha travolto politici di lungo corso, portato Donald Trump, il più improbabile dei candidati, alla nomination repubblicana e permesso a un 74enne socialista di rimanere in corsa fino alla fine della contesa democratica.
Populismo sembra essere oggi la parola magica usata, e talora abusata, per spiegare e accomunare i successi di Trump e Sanders. E delle comunanze tra i due in effetti vi sono. In entrambi i casi, agisce con forza un sentimento anti-politico diffuso e trasversale. Trump rappresenta e cavalca l’anti-politica. Sanders si presenta come l’altra-politica: radicale, onesta e aliena ai compromessi. Ma perché questo populismo anti-politico è vincente oggi più che in passato, negli Usa e anche in Europa? Varie spiegazioni possono essere offerte. La politica vilipesa e rigettata è una politica che ha gravi responsabilità: che è stata, e talora continua a essere, lontana, autoreferenziale, incapace di riformarsi. È però anche una politica oggettivamente debole: priva della strumentazione necessaria per confrontarsi con processi globali che hanno da tempo travolto gli argini della governance nazionale dentro cui l’azione politica ed elettorale ancora si dispiega. Nel caso degli Usa – e di questo ciclo elettorale – uno dei dati più significativi è rappresentato dall’attivazione di quel pezzo d’America che nella globalizzazione degli ultimi 30/40 anni si è trovata dalla parte dei perdenti. Un’America bianca, con bassi livelli d’istruzione, che un tempo costituiva la spina dorsale di un mondo operaio ben retribuito e decentemente tutelato e che, in concomitanza col tracollo del settore manifatturiero e la delocalizzazione della produzione industriale, ha visto diminuire redditi, garanzie, possibilità di ascesa sociale e, in taluni casi, anche aspettative medie di vita. Se andiamo a guardare dentro l’elettorato di Trump e Sanders vediamo come questa America sia sovra-rappresentata. Nel caso del miliardario newyorchese si può addirittura sostenere che abbia recuperato alla causa milioni di votanti che avevano disertato le urne nelle ultime tornate elettorali (uno dei dati più significativi di questo ciclo è l’altissima partecipazione elettorale tra i repubblicani).
Sottolineare l’esistenza di alcune, comuni matrici che spiegano i fenomeni Sanders e Trump non dove però indurre nell’errore di accomunarli passivamente, come talora fanno alcuni commentatori. Nel caso del candidato repubblicano, la risposta alla crisi e finanche alla delegittimazione della politica è stata veicolata attraverso un messaggio identitario e nazionalista, fondato sull’esplicita contrapposizione tra questa America e i suoi presunti nemici interni (immigrati) ed esterni (in modi diversi Islam e Cina). Le proposte politiche di Sanders, forse irrealistiche e a sua volta protezionistiche, sono state anch’esse indirizzate contro un nemico: la finanza e il grande capitale. Ma hanno parlato la lingua di un repubblicanesimo civico centrato ancor oggi sull’idea di solidarietà, responsabilità, cooperazione e dialogo. Sono due populismi, quelli di Trump e di Sanders, le cui radici stanno, solide e profonde, dentro la storia degli Stati Uniti. E che, in questo difficile snodo storico, sembrano aver trovato il terreno per ottenere un consenso mai avuto in passato.

Il Giornale di Brescia, 8 giugno 2016