Mario Del Pero

Obama e la linea del colore

Doveva essere il presidente di un’America finalmente post-razziale. Un’America che la sua persona e la sua biografia in fondo incarnavano, perché l’Obama orgogliosamente nero era anche il figlio di una donna bianca di origini irlandesi, cresciuto e divenuto adulto in luoghi – l’Indonesia con la madre e il patrigno, le Hawaii con i nonni – che costituivano, nei fatti e nella simbologia, il crocevia emblematico di ibridazioni e meticciamenti transpacifici: spazi di pluralismo e contaminazione, dove le differenze scompaiono o si fanno storicamente meno determinate e divisive. È invece, Barack Obama, il Presidente chiamato a confrontarsi con una delle crisi razziali più acute e profonde della recente storia statunitense; una crisi che colpisce in modo spesso indistinto le grandi aree urbane, siano esse in Minnesota o in Texas, nel Maryland o in Louisiana. Il Presidente di un’America nella quale torna cioè ad agire, lacerante e violenta, quella linea del colore che ha segnato la storia del paese e dalla quale esso non è mai riuscito del tutto ad affrancarsi. Obama si trova ora sul banco degli imputati. Accusato dai movimenti neri, su tutti il Black Lives Matter (“Le vite dei neri contano”), di non aver affrontato con il dovuto coraggio la violenza strutturale che gli apparati statuali dispiegano contro gli afroamericani. Denunciato da molti intellettuali di colore come esponente di un ceto politico nero compromesso, imborghesito e incapace ormai di rappresentare e tutelare la minoranza afroamericana. E messo sul banco d’accusa da parte di un pezzo d’America, bianca e non solo, che si sente tradita; che ritiene che le critiche alle forze di polizia, e al loro uso sproporzionato della forza, abbiano finito per rovesciare l’equazione tra vittime e oppressori se non, addirittura, per contribuire al clima che ha portato alla strage di Dallas.
Obama può certo avere delle responsabilità. Almeno fino ai disordini di Ferguson, Missouri, dell’agosto 2014 sulla questione razziale si è mosso con una cautela che rasentava la passività. È stato forse condizionato dal timore di apparire di parte, oltre che da un passato – suo e della moglie Michelle – che lo esponeva all’accusa di contiguità con ambienti radicali del mondo nero. Si è però anche trovato a fare i conti con la piena deflagrazione di contraddizioni a lungo represse e non più contenibili, e con un pezzo d’opinione pubblica e di mondo politico – minoritario, ma non marginale – che mai ha accettato l’idea di avere un nero alla Casa Bianca. Due, in particolare, sono le dinamiche che intrecciandosi inestricabilmente hanno prodotto la drammatica miscela che vediamo in azione oggi: le politiche di sicurezza e la frattura razziale. Le prime sono state dispiegate secondo una logica draconiana di “tolleranza zero” che, soprattutto nelle aree urbane, ha colpito senza pietà gli afroamericani e quelli giovani in particolare. Nel mentre il gap razziale – di reddito, occupazione, istruzione – è rimasto immutato o si è attenuato in minima misura. L’idea che maggior sicurezza nelle strade avrebbe garantito maggiori possibilità sociali non si è realizzata. Questo scarto – tra promesse e risultati, retorica e realtà – Obama l’ha ereditata nel momento in cui essa diveniva tanto visibile quanto insostenibile. Perché non appare più tollerabile che un bambino nero su nove abbia un genitore incarcerato o che il 30% degli afroamericani sotto i 35 anni senza diploma di scuola media superiore si trovi oggi in una prigione. E di certo non appare più accettabile che in nome della sicurezza si tollerino pratiche poliziesche tanto invasive quanto discriminatorie e, non di rado, violente. Le politiche securitarie adottate in risposta alla grave crisi urbana degli anni Settanta e Ottanta paiono in altre parole aver perso molta della loro legittimità. Anche perché, nell’epoca in cui viviamo, esse risultano documentabili e visibili in tempo reale, come drammaticamente rivelato dalle immagini inviate dalla fidanzata di Philando Castile, il 32enne afroamericano ucciso tre giorni fa in Minnesota da un poliziotto. Per la sua storia e per ciò che la sua elezione ha simboleggiato, Obama era forse l’uomo sbagliato per gestire una transizione tanto difficile in un’America ancora così spaccata. A chi gli succederà spetterà il compito di confrontarsi con una situazione divenuta straordinariamente complessa, che una campagna elettorale divisiva e violenta come quella che si prospetta rischia ancor più di aggravare.

Il Messaggero, 9 luglio 2016