Mario Del Pero

Spy stories

Email penetrate e rese pubbliche che rivelano le discussioni dei vertici del partito democratico su come danneggiare Sanders e favorire la Clinton nelle primarie. Messaggi riservati, questi, divulgati proprio all’inizio della convention democratica con l’intenzione evidente di alimentare tensioni tra i delegati e rendere più difficile il raggiungimento dell’unità a sostegno di Hillary Clinton. E messaggi che pare siano stati fatti circolare da hackers dei servizi di Putin, con l’obiettivo di danneggiare la Clinton e favorire il candidato repubblicano Donald Trump, grande ammiratore del presidente russo.
Una spy story un po’ surreale, a dire il vero, che irrompe in una campagna presidenziale già di suo ai limiti del grottesco. La Clinton denuncia con asprezza le ingerenze putiniane; Trump si guadagna l’accusa di alto tradimento laddove sollecita Putin a promuovere altre operazioni simili e a divulgare le email secretate che rivelerebbero le malefatte dell’ex Segretario di Stato; i servizi d’intelligence statunitensi s’interrogano sull’opportunità di rispettare tradizione e protocollo, mettendo informazioni sensibili a disposizione di un candidato fuori controllo come Trump. Putin finora tace, ma si può immaginare che osservi compiaciuto il teatrino di questi giorni.
È probabile che la polemica rientri rapidamente: che la tempesta stia in fondo in un bicchiere d’acqua. E che ognuna delle parti in causa reciti la propria parte con il chiaro obiettivo di trarre il massimo vantaggio possibile. La Clinton può rimarcare una volta ancora l’impresentabilità di Trump: un uomo capace di tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, anche quello di sollecitare ingerenze palesi nella politica degli Stati Uniti da parte di uno loro dei principali nemici. Trump ha avuto una giornata di tensioni dentro la convention democratica, anche se la frattura non è durata e il partito è riuscito a esprimere un’unità d’intenti che era invece mancata alla controparte repubblicana. Ma il magnate newyorchese spera comunque di ottenere un tornaconto elettorale da questo suo indiretto flirt con Putin. Sa che una parte non marginale di americani considera il presidente russo leader abile e spregiudicato, capace in più occasioni di mettere in un angolo Obama. E sa che l’ammirazione per lo spregiudicato realismo di Putin origini anche da un’infatuazione autoritaria che pare oggi assai diffusa tra gli elettori di Trump. Non ritiene, insomma, di dover pagar dazio alcuno per il tentativo di cooptare il leader russo nella campagna elettorale, come ha in pratica fatto con il suo invito a continuare l’opera di hackeraggio della mail della Clinton. Putin, infine, è certo consapevole che il suo accorto silenzio alimenta il convincimento che la Russia sia in qualche modo coinvolta. E la cosa presumibilmente non gli dispiace. Questa spregiudicatezza rafforza la convinzione, dentro e fuori la Russia, che egli sia un leader forte capace di giocare la sua partita con efficacia e senza scrupoli. E lo aiuta ad occultare le difficoltà interne e internazionali di Mosca, con una economia in sofferenza e una Russia oggi assai isolata. Soprattutto, la vicenda gli permette di dire che quel gioco spesso rinfacciato agli Usa – quella intrinseca propensione a interferire negli affari interni di altri paesi – lo sa giocare bene anche Mosca se chiamata a farlo. Difficile credere che il Presidente russo voglia davvero aiutare Trump; più probabile invece che – realismo per realismo – Putin sappia che le chance del candidato repubblicano di conquistare la Presidenza siano assai limitate. E che questa piccola dimostrazione di forza, se di ciò davvero si è trattato, non sia destinata ad avere un impatto significativo sull’esito ultimo delle elezioni.

Il Messaggero/Il Mattino 1 agosto 2016