Mario Del Pero

Trump, l’impeachment e i repubblicani

La slavina del Russiagate sembra essere davvero partita. I suoi esiti rimangono però imprevedibili, condizionati come sono da molteplici variabili politiche. Potrebbe travolgere rapidamente Trump o risolversi in un nulla di fatto. O, più plausibilmente, logorarlo con inesorabile gradualità fino al giorno in cui i repubblicani al Congresso si riterranno finalmente liberi di scaricarlo. Perché sono queste – la dialettica e i rapporti di forza dentro al partito repubblicano – le dimensioni oggi dirimenti.
Pur permanendo diverse opacità, il quadro a nostra disposizione si è fatto molto più chiaro. Durante la campagna elettorale importanti membri della squadra del Presidente hanno avuto rapporti con alti funzionari e diplomatici russi. Tra questi il futuro Consigliere per la Sicurezza, poi dimessosi, Michael Flynn. Che nella fase d’interregno tra l’amministrazione Obama e quella Trump ha pure incontrato l’ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak, come del resto hanno fatto il Ministro della Giustizia, Jeff Sessions, e l’influente consigliere (nonché genero) di Trump, Jared Kushner. L’FBI ha avviato un’inchiesta per far luce sia su eventuali complicità con le ingerenze russe nella campagna elettorale sia sui legami di Flynn con Mosca e i finanziamenti che egli avrebbe ricevuto da quest’ultima. Dopo varie tensioni, Trump ha infine licenziato il direttore dell’FBI James Comey proprio per l’eccessiva attenzione dedicata dall’agenzia al caso. Infine, il New York Times ha rivelato l’esistenza di un memorandum scritto da Comey stesso secondo il quale Trump gli avrebbe esplicitamente chiesto di porre termine all’indagine.
Quali sono i termini della questione e come potrebbe evolvere? Da un lato essa è rivelatrice, se mai ve ne fosse bisogno, dell’assoluta e imbarazzante inadeguatezza di Trump rispetto al ruolo che oggi occupa. Le gaffe, le contraddizioni, le bugie, l’ostentata prepotenza, il palese analfabetismo istituzionale: questi e altri elementi hanno contraddistinto la gestione della vicenda da parte del Presidente e di un entourage incapace di contenerlo, gestirlo ed educarlo. Un’inadeguatezza, questa, ormai rimarcata da molti commentatori, anche di destra. Alcuni si spingono addirittura a suggerire l’utilizzo di un passaggio del XXV emendamento costituzionale in virtù del quale, laddove il vice-Presidente e una maggioranza dei principali funzionari dei dipartimenti dell’Esecutivo ritenessero che il “Presidente non è in grado di esercitare i poteri e i doveri derivanti dal suo ufficio”, egli sarebbe rimosso e il suo Vice entrerebbe in carica.
La rimozione per palese inadeguatezza in realtà non esiste costituzionalmente e l’emendamento in questione, approvato nel 1967, rifletteva il timore durante la guerra fredda che un Presidente anziano non fosse più in grado di assolvere le sue funzioni con una conseguente, pericolosa vacanza di poteri. La strada maestra rimane quindi quella politica e, in conseguenza, costituzionale. La messa in stato d’impeachment, in altre parole. Che non si è mai realizzata negli Stati Uniti: Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998 si salvarono al Senato; Richard Nixon nel 1974 si dimise prima che l’impeachment fosse votato (nella certezza che esso sarebbe stato approvato). Se le ultime rivelazioni fossero confermate, il comportamento di Trump ricorderebbe da vicino proprio quello di Nixon. In entrambi i casi vi sarebbe stato infatti un tentativo di ostruire l’indagine dell’FBI.
I contesti politici sono al momento però molto diversi. L’impeachment richiede un primo voto a maggioranza semplice della Camera, seguito da un processo al Senato diretto dal Presidente della Corte Suprema e da un voto finale, per il quale è richiesta la maggioranza qualificata dei due terzi. Considerando i numeri odierni al Congresso, l’impeachment, insomma, sarebbe possibile solo laddove vi fosse una massiccia defezione tra le fila del partito del Presidente. Defezione che non è immaginabile. Perché il partito repubblicano, per il momento, è il partito di Donald Trump. Un partito che il Presidente domina e controlla forte del consenso, amplissimo, di cui gode tra l’elettorato conservatore. Secondo un recente sondaggio CNN/ORC, più del 60% degli elettori repubblicani ritiene addirittura che, anche se chiaramente dimostrata, una palese ingerenza russa nel processo che ha portato Trump alla Casa Bianca sia irrilevante o poco importante. Prima del voto del 2020, ci vorranno insomma altre rivelazioni, gaffe e scandali per attivare un percorso che potrebbe porre termine all’eccentrica esperienza presidenziale di Donald Trump.

Il Mattino 17 maggio 2017