Mario Del Pero

Realismo e Principi

È stato un discorso tanto bellicoso e muscolare quanto vago e insipido quello pronunciato martedì notte da un Donald Trump di suo assai sotto tono e incline a ripetere passivamente le frasi che apparivano sul gobbo elettronico di fronte a lui. Il Presidente ha annunciato la decisione di alzare la soglia dell’impegno militare statunitense in Afghanistan con l’invio di alcune migliaia di soldati che andranno ad aggiungersi ai quasi 10mila attuali e, presumibilmente, col parallelo aumento del numero di contractors privati (oggi circa 25mila).
Gli obiettivi rimangono in larga misura gli stessi che hanno giustificato quella che negli anni è divenuta la “guerra americana” più lunga di sempre. Si vuole evitare l’implosione del fragile stato afghano che trasformerebbe il paese nuovamente in un santuario per gruppi terroristici e movimenti fondamentalisti; si crede possibile promuovere un efficace addestramento e rafforzamento delle forze armate di Kabul; si spera di poter usare questa presenza ormai permanente come strumento di pressione su un governo afghano debole e corrotto e su un partner pakistano ambiguo, inaffidabile e pericoloso.
Poco di nuovo, insomma. Obama usò simili giustificazioni per difendere la scelta dell’escalation in Afghanistan adottata nel 2009 e la successiva decisione di non procedere al promesso ritiro completo, mantenendo il contingente attualmente dispiegato. Una scelta che Trump a suo tempo criticò aspramente, ma nel cui solco sembra ora muoversi.
Cosa ci dicono questa decisione e la modalità – un discorso presidenziale al paese – utilizzata per comunicarla e spiegarla?
Tre risposte possono essere offerte. La prima, appunto, è la paradossale continuità strategica e discorsiva tra due amministrazioni, quella di Obama e quella di Trump, che più diverse non potrebbero essere o apparire. Come il suo predecessore, Trump ha apertamente rigettato le logiche e la retorica che avevano informato l’iniziale intervento militare in Afghanistan. “Non siamo qui a edificare delle nazioni” (a fare nation-building), ha dichiarato il Presidente, “ma ad uccidere dei terroristi”. Nessun idealismo ingenuo, candido o audace, insomma, ma un “realismo di forti principi” (principled realism) molto simile a quello più volte rivendicato da Obama.
La seconda indicazione è che l’establishment militare così ben rappresentato nell’amministrazione sembra voler ricondurre la politica estera e di sicurezza sotto il proprio pieno controllo, sottraendolo alle mani erratiche e incaute dei lealisti trumpiani, di loro fortemente indeboliti dalla rimozione di Steve Bannon, l’importante consigliere del Presidente che sognava una linea meno globalista e interventista. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale McMaster, il segretario della Difesa Mattis, il nuovo capo di gabinetto Kelly: i militari di cui si è circondato Trump sono tutti veterani dei conflitti in Iraq e Afghanistan; figure convinte che laddove correttamente applicate, le loro dottrine controinsurrezionali potranno sortire i risultati auspicati e indebolire terrorismo e radicalismo fondamentalista.
E questo ci porta al terzo e ultimo punto: l’Afghanistan come paradigma del tipo di guerra che la superpotenza statunitense è in grado di condurre. Una guerra permanente, a bassa intensità, opaca, infinita. Una guerra/non-guerra, verrebbe quasi voglia di dire. Un’azione che al di là delle promesse roboanti – “li sconfiggeremo facilmente”, ha garantito una volta ancora Trump – sembra mirare a contenere il danno e a schiacciare il più rapidamente le mille, infinite teste che l’Idra del terrorismo globale pare essere in grado di generare senza soluzione di continuità.

Il Giornale di Brescia, 23 agosto 2017