Mario Del Pero

Il secondo dibattito

I dibattiti tra i candidati presidenti spostano pochi voti, come gli studiosi non mancano di sottolineare. La loro importanza non può però essere sottostimata. Possono indirizzare la narrazione e la rappresentazione della campagna elettorale;  energizzare o deprimere i militanti e l’elettorato di riferimento; incidere, di conseguenza, sulla fondamentale azione di raccolta dei finanziamenti necessari a sostenere i costi, oggi davvero immensi, della competizione.

Tutto ciò lo si è visto in occasione del primo confronto televisivo tra Romney e Obama di due settimane fa. È presto per dire quale sarà l’effetto del secondo dibattito tenutosi ieri alla Hofstra University di Long Island. Di certo, però, Obama è uscito vincitore e questo potrebbe alterare una dinamica elettorale che dopo il primo confronto sembrava favorire Romney.

Il Presidente ha fatto quel che doveva fare e, soprattutto, quel che il suo elettorato, deluso e irritato, gli chiedeva. Ha il difetto, Obama, di essere spesso vago e approssimativo, oltre che sistematicamente prolisso. Non è, a dispetto di quel che si crede, un grande oratore e gli mancano i tempi, il brio e la rapidità imposti da questi confronti televisivi. Era però avvantaggiato dal format del dibattito di ieri, un incontro “townhall” con domande fatte dal pubblico e candidati liberi di muoversi e interloquire direttamente con i presenti. Un modello più informale e colloquiale di discussione che ha messo in una certa difficoltà l’impettito rivale e che forse per la prima volta nella campagna ha mostrato anche la netta differenza di età tra i due (Obama ha 51 anni, Romney 65).

Soprattutto, Obama ha tratto vantaggio da alcuni dei temi dibattuti alla Hofstra. Le domande su contraccezione e immigrazione, in particolare, gli hanno permesso di esporre, e denunciare, le posizioni davvero estreme assunte negli ultimi anni dai repubblicani. E gli hanno consentito di parlare a pezzi di elettorato, gli immigrati ispanici e le donne, che Romney farà moltissima a conquistare e che il Presidente deve assolutamente portare alle urne per sperare di poter essere rieletto.

Obama ha però incalzato Romney su numerosi altri aspetti che, senza apparente motivo, aveva deciso invece di lasciare da parte nel primo confronto. Tra questi, i programmi economici del candidato repubblicano, le sue proposte di ulteriori riduzioni della pressione fiscale, le sue considerazioni su quella quasi metà d’America – il famoso 47% – a suo dire assistita e incapace di assumersi le proprie responsabilità. Nel farlo, ha messo Romney in un angolo, esponendone quella che è oggi la principale debolezza: la sua paradossale combinazione di opportunismo e radicalismo. Diversamente dal primo confronto, non ha permesso a Romney di occupare il centro politico, spingendolo costantemente verso destra, ricordando i suoi frequenti, e repentini, mutamenti di posizione e adottando un lessico populista pensato per mettere in risalto la lontananza tra il milionario Romney, che paga il 14% di tasse, e quella middle class in difficoltà che ne paga spesso più del doppio.

Fino a quando ha deciso di correre per la Presidenza, Romney è stato un repubblicano moderato: straordinariamente moderato per gli standard ultimi del partito. La  sua biografia – le posizioni che ha assunto su aborto, sanità, istruzione, ruolo del governo – ne è la riprova evidente. Per poter conquistare la nomination Romney si è però spostato vieppiù a destra, assumendo posizioni estreme su temi nodali, come appunto l’immigrazione. Ha così alienato segmenti importanti dell’elettorato e permesso ai suoi avversari – ultimo Obama ieri sera – di denunciare il combinato disposto di un radicalismo privo di coerenza e di un opportunismo privo di moderazione. Il presidente non può far leva su un quadriennio di governo particolarmente brillante, per colpe sue e non solo. Può parlare poco del passato recente e dei suoi rari successi politici, ed è spesso vago e generico quando si tratta di prospettare e immaginare il futuro. Le sue maggiori risorse, lo si è visto anche in questa occasione, sembrano essere proprio i suoi avversari, Romney e i repubblicani, che possono sì capitalizzare su una situazione economica ancora molto difficile e sulla diffusa delusione per l’operato di Obama, ma il cui radicalismo li rende incapaci di intercettare e rappresentare alcune delle profonde trasformazioni culturali, demografiche e politiche del paese.

Mattino/Messaggero, 18 ottobre 2012

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